lunedì 8 ottobre 2012



Frati precursori
Un progetto francescano di evangelizzazione anticipava alcune linee 
del concilio già negli anni Quaranta del Novecento 

Dal patrimonio archivistico del Centro pastorale per le missioni interne emergono testimonianze di innovativi metodi di analisi
di Giuseppe Buffon

Fr. Giuseppe Buffon
La festa di san Francesco d’Assisi assume quest’anno un significato particolare per il fatto di precedere di appena otto giorni l’inaugurazione dell’anno della fede, che segna l’inizio delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario d’indizione del concilio Vaticano II. A tutti è ormai noto il contributo offerto dal santo di Assisi al progresso della fede con la fondazione dell’ordine francescano. Una iniziativa assolutamente inedita, anche in ambito scientifico, è invece la proposta di una “nuova evangelizzazione”, maturata in seno al medesimo ordine francescano nel decennio precedente al grande evento conciliare. Di vero inedito, infatti, si deve parlare allorché si fa riferimento alla vicenda del Centro pastorale per le missioni interne (Cpmi), il cui patrimonio archivistico — in buona parte sprovvisto di catalogazione — giace fino a ora inesplorato. Si è dimostrata sufficiente una rapida consultazione del materiale documentario prodotto dai suoi organismi per cogliere i tratti di un’autentica anticipazione del programma riformistico lanciato dal Vaticano II, nonché per scoprire una modalità di applicazione dell’orientamento conciliare, vale a dire quella sua connotazione pastorale, orientata al dialogo con il “mondo”, inteso nella sua dimensione secolare, economica, politica e civile.
L’intuizione del Cpmi affonda le sue radici in un preciso sostrato culturale, tipico di una stagione di ricerche storico sociali, svolte intorno al confronto tra religione e “modernità”. Ci riferiamo qui alla fine degli anni Quaranta, periodo durante il quale lo storico Gabriel Le Bras e il canonico Fernand Boulard, fondandosi sui dati relativi alla pratica religiosa, individuano i tratti di una geografia francese di scristianizzazione. Nelle “carte della Francia religiosa” da essi realizzate figurano suddivisioni denominate: zone a, con praticanti in alta percentuale; zone b, con percentuale medio bassa di frequenza e con i rimanenti di mentalità cristiana ancora persistente; e infine zone c, caratterizzate da esiguo numero di praticanti all’interno di un ambiente che si distingue per una concezione di vita ormai completamente avulsa dai valori cristiani.
 
In questo stesso periodo, il francescano padre Jean François Motte, estimatore del Boulard e a lui legato da fruttuosa collaborazione, matura la convinzione che, per evangelizzare la popolazione dei territori corrispondenti alle zone b e più ancora quella residente nelle zone c, poco o nulla sarebbe servita la missione proposta secondo il metodo tradizionale. Le missioni parrocchiali, così come erano state praticate in seguito al concilio al Trento, forse avrebbero potuto ottenere qualche risultato nelle zone a, dove era sufficiente un intervento rivolto al piano morale, dato che l’elevata pratica cristiana consentiva di tralasciare problematiche riguardanti la fede (incroyance). Sempre secondo padre Motte, le missioni parrocchiali, puntando su parate, ritualità, predicazioni d’effetto, avrebbero potuto incidere emotivamente sulla popolazione delle zone b; tale forma di approccio alquanto superficiale non avrebbe potuto però ottenere risultati duraturi sul piano dei comportamenti, dei valori, degli stili di vita. Ancora, il metodo missionario tradizionale, che presupponeva la fede, non avrebbe avuto invece impatto alcuno sulle popolazioni delle zone c, per le quali non era solo in gioco la morale, ovvero i comportamenti, bensì lo stesso credo nell’esistenza di un Dio personale e la fiducia nella mediazione della Chiesa istituzionale.
Sul piano concreto, operativo, Motte si dimostra convinto della necessità di realizzare un piano di evangelizzazione almeno su scala diocesana, e inoltre che esso venga progettato tenendo conto di una suddivisione del “territorio”, quale esito di un accurato studio socio religioso degli ambienti umani. In estrema sintesi, direbbe Motte, per modificare i comportamenti in zone b o c, si imporrebbe un intervento di ordine generale, appunto una missione generale — così l’operazione è definita dal Motte — e non più una missione delimitata dal perimetro parrocchiale. Per farsi intendere Motte usa ricorrere alla metafora seguente: non è più possibile “pescare con la canna”, ovvero rivolgere l’attenzione verso singole persone o ad ambienti ristretti, limitati territorialmente; quanto oggi urge, dichiara il francescano, è una tecnica pesca che preveda “il cambiamento dell’acqua”, cioè che esiga un intervento sul complesso dei fattori, i quali pervadono l’intera sfera socio-culturale. Fuor di metafora, sarebbe quindi necessario operare secondo un metodo, che Motte definisce “pastorale d’ensemble”. Sulla base di tale criterio, l’evangelizzazione dovrebbe prevedere cioè una sincronica e coordinata serie di interventi, tale che ciascuno sia indirizzato verso una determinato settore dell’ambiente sociale, dato che l’agire umano è condotto non solo dalla volontà propria, ma viene influenzato, appunto, anche dall’ambiente.
Al fine di raggiungere il suddetto obiettivo, previsto dalla pastorale d’ensemble, la parola d’ordine non può che essere espressa nel termine di collaborazione. Il Cpmi — fondato a Parigi nel 1951 su iniziativa del Motte stesso — sorgeva in realtà con la summenzionata finalità. La prima opera di collaborazione spetta allora ai vari istituti religiosi, che tradizionalmente svolgono attività in ambito missionario a servizio delle parrocchie. In realtà, gesuiti, domenicani, redentoristi, oltre a cappuccini e francescani, all’epoca già avevano avuto modo con la loro esperienza di dimostrare l’efficacia della cosiddetta collaborazione missionaria, avendo essi partecipato ad alcune missioni generali organizzate da Motte alla fine degli anni Quaranta del Novecento. L’entusiasmo suscitato da quelle felici esperienze li aveva corroborati infondendo loro stimolo e audacia per progettare un accordo di lunga durata, concretizzatosi appunto con la creazione dell’organismo denominato Cpmi.
La collaborazione raggiunta dagli istituti religiosi missionari, per Motte, però non sarebbe misura sufficiente per realizzare quel determinato scopo già prefissato dal Cpmi, tramite la missione generale, vale a dire la pastorale d’ensemble. Per raggiungere un tale obiettivo era quindi necessario ottenere anche la collaborazione da parte dell’episcopato, quale agente primo di una Chiesa da intendersi “comunità missionaria”.
Un’efficace pastorale d’ensemble, precisa ancora Motte, esigerebbe non solo l’accordo tra gli istituti religiosi missionari e la sintonia tra i religiosi e i vescovi, ma richiederebbe anche la collaborazione attiva e responsabile da parte dei laici.
Dall’arcivescovo di Cambray, monsignor Guerry, inoltre, Motte attinge la sensibilità per il valore ecclesiale del laicato. Figura di spicco dell’episcopato francese, soprattutto per aver incoraggiato l’opera di evangelizzazione tramite il ricorso al laicato d’azione cattolica, Guerry fu uno dei primi a intuire la necessità della penetrazione del ceto operaio, quale ambiente altamente scristianizzato e per questo lontano dalla compagine ecclesiale. Per Guerry, come in parte anche per Motte, l’incroyance trova fecondità specialmente nelle caratteristiche socio culturali e politiche dell’ambiente operaio. Il laicato, per entrambi, costituirebbe allora l’unico agente in grado di introdurre una testimonianza cristiana credibile in ambienti, com’è quello operaio, ormai lontani per mentalità e stili di vita dalla proposta cristiana. La collaborazione offerta dai laici, espressa tramite il “mandato” missionario, diventa perciò imprescindibile per il successo della nuova proposta di evangelizzazione. Il cerchio della collaborazione per una efficace pastorale d’ensemble non si può però considerare concluso senza comprendere la partecipazione del clero e della stessa comunità cristiana parrocchiali. Per imprimere efficacia a una missione, che sia attenta non tanto al territorio ma agli ambienti — operaio, scolastico, infanzia, borghese, industriale e così via — è necessario uscire dai ristretti confini della parrocchia, anzi è d’obbligo rivedere lo stesso concetto di territorializzazione e distribuzione delle presenze religiose, così da aprirsi alla collaborazione e disporsi alla formazione di equipe di parroci.
Nemmeno la comunità parrocchiale, costituita dai cosiddetti praticanti, alla luce del progetto missionario del Cpmi, può considerarsi esclusa dalla collaborazione all’iniziativa missionaria. In realtà, la comunità parrocchiale, in primis, dovrebbe sottoporsi a una verifica di autenticità, in vista di assumere essa stessa l’incarico missionario, quale testimone di una fede credibile. La comunità cristiana, secondo Motte, dovrebbe maturare il disegno della propria conversione con la verifica delle cause responsabili dell’abbandono della fede, dei motivi della moderna avversione alla Chiesa, custode e testimone del proprio credo.
La missione generale, secondo Motte, non deve dunque orientarsi ai soli lontani, bensì anche ai cosiddetti vicini, cioè alla comunità parrocchiale. Allo scopo di rianimare la comunità parrocchiale, di rivitalizzare i suoi differenti settori, il Cpmi giunge progressivamente a concepire la programmazione di un periodo preparatorio, della durata di due o tre anni, cosiddetto della pre-missione, periodo durante il quale tutta la comunità cristiana viene coinvolta nell’indagine socio-religiosa dei ceti sociali presenti sul territorio.
La storia del Cpmi costituisce un inedito assoluto, dato che, come si è detto, non è stata ancora condotta una ricerca sistematica sui documenti che formano il suo archivio. In realtà, allo stato della ricerca, potremmo affermare l’assenza di un archivio inteso in senso stretto. La documentazione relativa all’attività svolta dai vari componenti del Centro pastorale, si può reperire infatti soltanto facendo riferimento ad archivi privati e a quelli di enti religiosi o ecclesiastici, già collaboratori del medesimo organismo.
Il Cpmi cessa di esistere alla fine del 1970, per ragioni complesse. In un futuro auspicabile studio sarebbe opportuno e fruttuoso prestare speciale attenzione ai nessi tra le ragioni della sua estinzione e i processi di ricezione degli orientamenti del concilio Vaticano II, tanto a livello di strutture ecclesiali — episcopato, ordini religiosi missionari — quanto sul piano delle comunità parrocchiali, clero e movimenti laicali. È nostra convinzione, infatti, che l’approfondimento della vicenda del Cpmi, in particolare quella relativa alla fase finale, che ne ha visto l’estinzione, potrebbe contribuire al dibattito sul modo in cui del Vaticano II sono stati recepiti sia lo spirito, sia il contenuto.
Tale confronto, come è noto, è tutt’ora animato da interrogativi intorno a continuità, discontinuità, ovvero intorno a progressismo o a conservatorismo, blocchi o proiezioni eccessivamente futuristiche. In una parola, l’analisi della genesi e soprattutto dell’epilogo del Cpmi, a nostro avviso, contribuirebbe a illuminare le annose questioni sorte intono all’ermeneutica non solo del testo, ma anche dell’evento conciliare. Dai sondaggi finora effettuati, almeno un’ipotesi generale sembra profilarsi quale orizzonte di un auspicabile approfondimento. L’ipotesi proponibile potrebbe esprimersi nella maniera seguente: e se le ragioni della estinzione del Cpmi coincidessero con i ritardi o con il fallimento di una piena applicazione della riforma conciliare, ossia con la sconfitta verificatasi in alcuni aspetti, quali la collaborazione tra i differenti agenti pastorali; la responsabilità del laicato in ambito ecclesiale, missionario; l’equilibro, l’armonizzazione tra applicazione delle scienze umane e interpretazione teologico spirituale?

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