giovedì 6 settembre 2012

Il perché di un innegabile protagonismo in ambito mariano
Da Paolo VI a Benedetto XVI
di Angelo Amato

Inaugurando la corretta impostazione teologico-dogmatica del discorso su Maria, il concilio di Efeso indicò l’alveo idoneo per l’approfondimento dottrinale del mistero della beata Vergine, per una sua valida celebrazione liturgica e devozionale e per una sua adeguata rappresentazione iconografica. Come Efeso, anche il Vaticano II si pone, dopo più di quindici secoli, come spartiacque epocale del discorso mariano, disciplinandone il rigoglioso sviluppo avuto nel corso dei secoli e ridando alla riflessione e alla pietà mariana la loro essenziale struttura cristologico-trinitaria nell’ormai celebre capitolo ottavo della costituzione dogmatica sulla Chiesa, intitolato De beata Maria Virgine Deipara in mysterio Christi et Ecclesiae. Riprendendo il dogma efesino della maternità divina di Maria — «Virgo enim Maria, quae Angelo nuntiante Verbum Dei corde et corpore suscepit et Vitam mundo protulit, ut vera Mater Dei ac Redemptoris agnoscitur et honoratur» — il Concilio aggiunge: «Intuitu meritorum Filii sui sublimiore modo redempta Eique arcto et indissolubili vinculo unita, hoc summo munere ac dignitate ditatur ut sit Genitrix Dei Filii, ideoque praedilecta filia Patris necnon sacrarium Spiritus Sancti, quo eximiae gratiae dono omnibus aliis creaturis, coelestibus et terrestribus, longe antecellit» (Lumen gentium, 53).
È straordinaria l’essenzialità del dettato conciliare in questa descrizione trinitaria della beata Vergine, chiamata genitrice del Figlio di Dio, figlia prediletta del Padre e sacrario dello Spirito Santo. Questa sua eccellenza di grazia fa sì che Maria «preceda di gran lunga tutte le altre creature, celesti e terrestri». Ma il concilio precisa anche che Maria è una creatura «redenta in modo più sublime in vista dei meriti del suo Figlio». È la stessa affermazione fatta dal concilio nel suo primo documento ufficiale, esattamente nella costituzione sulla sacra liturgia, in cui si asserisce che la Chiesa ammira in Maria «il frutto più eccelso della redenzione». Sono affermazioni decisive per allontanare dal discorso mariano ogni indebita esasperazione dottrinale e devozionale, che la ponga in parallelo al suo Figlio divino.
Dopo circa cinquant’anni possiamo oggi valutare con serena oggettività la portata epocale del capitolo ottavo della Lumen gentium, che, come il seme sparso sul terreno buono, ha dato sviluppo alla ricerca mariana trasformandola in pianta feconda di fiori e di frutti. In nessun modo intendo anticipare le considerazioni degli studiosi, che si alterneranno in questi giorni, per studiare la ricezione, il bilancio e le prospettive mariologiche a partire dal Vaticano II. Intendo solo proporre alcune considerazioni generali, sulla innegabile primavera mariana postconciliare, individuando protagonisti e apporti decisivi.
Credo che si possano individuare tre cause, fra le altre, che hanno contribuito in modo rilevante al rilancio di una mariologia scientifica di alta qualità teologica, che ha saputo riplasmare non solo il discorso dottrinale su Maria, ma anche la pietà del popolo cristiano e la sua spiritualità. Mi riferisco al protagonismo del magistero pontificio, ad alcuni dinamici laboratori di studi mariani e, infine, a una salutare impostazione metodologica, elaborata dall’ermeneutica della continuità aperta allo sviluppo.


Anzitutto, il discorso innovativo del Vaticano II, concentrato soprattutto nel capo ottavo della Lumen gentium, ebbe l’appoggio incondizionato del magistero papale, che si rese protagonista di una vera e propria rinascita mariologica. Iniziò Paolo VI, che, superando il paradossale silenzio scientifico dell’immediato post-concilio, tenne viva l’attenzione sul mistero di Maria, pubblicando due encicliche mariane — Mense maio (1965) e Christi Matri (1966) — e tre esortazioni apostoliche, Recurrens Mensis (1969), Signum magnum (1967) e Marialis cultus (1974). Nessuno può negare l’importanza contenutistica e metodologica, a esempio, della Marialis cultus, che evidenzia nella pietà mariana alcune caratteristiche — dimensione trinitaria, cristologica ed ecclesiologica — emergenti dall’approccio biblico, liturgico, ecumenico e antropologico. Si tratta di indicazioni che hanno arricchito la tavolozza ermeneutica, anche al di là della specifica riflessione mariologica. Di eccezionale ricchezza è stato, poi, il contributo del magistero mariano di Giovanni Paolo II, con l’enciclica Redemptoris Mater (1987), con l’esortazione apostolica Mulieris dignitatem (1988), con la lettera apostolica Tertio millennio adveniente (1994), con il suo ciclo di catechesi mariana (6 settembre 1995 - 12 novembre 1997), con i suoi innumerevoli discorsi e omelie mariane, con la lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae (2002) e con il capo sesto dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia (2003). Nei ventisette anni di pontificato, Papa Wojtyła ha rivisitato tutto intero il mistero di Maria, non solo dal punto di vista dottrinale, ma anche da quello pastorale, catechetico, ecumenico e spirituale. È poi tutto ancora da studiare il contributo mariologico del Santo Padre Benedetto XVI, prima e durante il suo pontificato.
A questo punto ci chiediamo sul perché di questo innegabile protagonismo pontificio in campo mariano: si tratta forse di espressione esagerata di devozione mariana o non piuttosto di un dato teologico che appartiene all’essenza del ministero petrino? A questo riguardo, Leo Scheffczyk affermava che, nell’universo della fede cattolica, «“Pietro” e “Maria”, nonostante siano caratterizzati da una personalità e storicità singolari, possono essere considerati “princípi” della realtà della fede cattolica. Non lo sono tanto nella loro autonomia, ma proprio nel loro rapporto e nel loro orientamento reciproco». Il ministero petrino, visto nella struttura ministeriale della Chiesa, oltre che esprimere una funzione ecclesiale, è parte integrante dell’identità del cattolicesimo, della sua qualità teologica e cristologica. Dal momento che ogni ministero apostolico ha un ruolo di mediazione tra l’umanità e Cristo, mediatore universale, anche il ministero petrino è radicato nella legge della mediazione che emana da Cristo, e che viene concretizzata nella Chiesa. Al ministero petrino spetta, però, una posizione di preminenza, dal momento che «esprime ancora una volta in una sola persona quello che gli apostoli erano insieme». Si tratta di un ministero necessario per l’unità della Chiesa.
Il principio petrino, inoltre, evidenzia il fatto che l’uomo con le proprie forze non può raggiungere la salvezza, che proviene solo da Dio in Gesù Cristo. Di fronte a tale ministero ci vuole una ricettività da parte dell’uomo e più precisamente da parte della Chiesa fatta di uomini battezzati. Da una parte si ha l’offerta della grazia mediante il ministero, dall’altra la recezione di questa grazia vista nella potenzialità che la Chiesa ha di riceverla. In ciò risiede la ragione teologica per affermare la realtà di Maria e il «principio mariano» nella Chiesa. Se la mariologia è un punto d’incontro di tutte le linee del dogma cattolico, Maria costituisce «il principio della Chiesa come ancella del Signore che serve, come mediatrice della salvezza, ma nell’ordine dei membri, cioè non come capo». Maria è l’immagine della Chiesa, non come realtà sociologica, ma come «grembo in cui viene portata e sempre di nuovo nasce la vita mistica di grazia di Gesù, il vaso vivente che, ricevendo, trasmette la salvezza di Cristo».
Il rapporto tra principio petrino e principio mariano può essere caratterizzato come paternità della generazione della salvezza e come maternità della ricezione della salvezza. Queste denominazioni corrispondono ed esprimono una realtà, dal momento che, a esempio, il ministero viene caratterizzato nel Nuovo Testamento con le parole con le quali Paolo si definisce padre nei confronti della sua comunità: «Vi ho generati in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (1 Corinzi, 4, 15). D’altra parte anche la Chiesa, che accoglie la salvezza e opera mediante la forza generatrice di Cristo, viene designata con i titoli di madre, donna, sposa o vergine. Nel ministero apostolico si può vedere la continuazione della mediazione di Cristo, come capo nell’evento salvifico e come principio della disposizione autorevole della salvezza, mentre in Maria si può vedere il principio della disponibilità della Chiesa a ricevere e a distribuire la salvezza: «Maria è il principio della prontezza umana illimitata per la salvezza, il principio che abbraccia la salvezza, il principio cooperatore e dotato di compassione». Nella realtà della Chiesa, i due principi non solo non sono contrapposti ma si compenetrano reciprocamente, per cui la Chiesa intera è contemporaneamente petrina e mariana. Si tratta di una specie di pericoresi, di interrelazione reciproca. Di conseguenza l’autorità nella Chiesa non può fare a meno di essere vivificata dall’atteggiamento mariano del fiat, del servizio fatto con umiltà, dedizione, generosità, fedeltà e comunione stretta con Cristo. D’altra parte, questa compenetrazione fa sì che il ministero petrino non possa essere percepito dalla Chiesa come una realtà estranea e autoritaria, ma solo come struttura necessaria per la trasmissione della vita di grazia nella concretezza della storia. Il profondo interesse, quindi, del magistero pontificio per la questione mariana non è solo un aspetto estrinseco e marginale dell’insegnamento papale, ma ne costituisce una dimensione intrinseca, che del resto viene ampiamente fondata e manifestata nella preghiera liturgica della Chiesa.

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