giovedì 31 gennaio 2013



Moglie e mistica
Il cammino interiore di Angela da Foligno
Per una guida alla lettura del «Liber Lelle»
di Alvaro Cacciotti

Nel panorama degli studi angelani mancava uno strumento quale quello che monsignor Fortunato Frezza ci offre; un lavoro erudito, drasticamente annotato con — secondo l’espressione di Iacopone da Todi — «longezza en breve scripta». Un’essenzialità che ha richiesto molto lavoro di cesello e che rende ragione delle due asperità di fondo del testo del ms. 342 di Assisi: la parola pronunciata e la parola scritta. Asperità conservate in molti dossier di natura spirituale per i quali l’analisi retorica del testo — certamente non in modo esclusivo — facilita la comprensione del suo senso elementare e delle sue evoluzioni lungo la traccia narrativa rilasciata dal segno scritto. 

Un testo mistico è, prima di tutto, un testo che va compulsato con le regole della grammatica e della retorica, cosa egregiamente operata in questo volume. Contrariamente al vezzo di teologi e di storici, di leggere le scritture spirituali servendosi di sistemi deduttivi teologici o di visioni moraleggianti assai teoriche, tutte sostanzialmente estranee, o almeno limitrofe, alla natura della mistica cristiana. L’analisi sistematica e approfondita della scrittura del ms. 342 in questione colma una lacuna in un panorama storiografico ormai imponente su Angela da Foligno. E se il cantiere rimane aperto, col lavoro di monsignor Frezza si avrà la possibilità di continuare i lavori con strumenti e materiali adeguati.
Il registro della brevità col quale tale lavoro si presenta non tragga in inganno il lettore, poiché i parametri umili adottati dall’autore, in realtà, contengono molto più di ciò che appare ad una lettura distratta: il riscontro generativo del linguaggio biblico, la sapienza filologica e la sobrietà teologico-letteraria, realmente rendono leggibile un testo sempre ritenuto fin’ora come scomposto e farraginoso.
È straordinario il guadagno di chiarezza portato da un tale lavoro allo scopo principale per il quale questo testo trovò una forma scritta, scopo di natura spirituale che il sodalizio tra Angela e il frater scriptor illustra come la trasmissione di un insegnamento capace di generare, di produrre un “corpo” di veri fedeli in grado di reperire il “tesoro nascosto” nella tenuta del Vangelo. È ciò che è dichiarato nell’incipit dell’opera.
Certo, altri motivi sono connessi all’attività scrittoria e molti altri potranno trovarsene, correlati in vario modo. Rimane, però, primario l’interesse che il testo riserva a se stesso quale documento dottrinale della relazione tra l’uomo e Dio.
La vicenda, ridotta all’estrema sintesi — anche se assai conosciuta — si colloca a cavallo tra il XIII e il XIV secolo e riguarda la sorte di una moglie e madre che abbandona tutto per Dio. Il racconto delle sue esperienze interiori è il contenuto di quello che ormai va sotto il titolo di Liber. Perché il testo avrà sempre tanto successo? Si tratta di un testo trasmesso in continuazione e tradotto nelle principali lingue europee. In esso trova, forse, ispirazione e/o riferimento una stagione spirituale nuova? Certo è che la critica più accreditata ha sempre ritenuto in modo vario e non univoco che il testo di Angela fosse assoggettato a una organizzazione redazionale perlomeno confusa che ha il suo punto debole nella struttura del materiale da trattare. Forse dopo il lavoro di monsignor Frezza andrà ripensato un giudizio siffatto. Quantomeno lo si dovrà calibrare in maniera puntuale su nuovi parametri. Così, ad esempio, a mio parere, un certo diffuso stile, chiamiamolo, “ermetico”, o anche “asistematico” del testo, è motivo praticato per sfuggire ad un disegno — già di segno opposto, comunque diverso — voluto dalla sistematica teologico-morale di considerare la crescita spirituale in modo attivo e progressivo, conseguita da una virtù eroica capace di meriti e messa in atto dalla bravura del devoto di turno, il quale, infine, conquista il premio consistente nel possesso di Dio.
Certo, il testo di Angela, redatto con fedeltà da parte dello scrittore, è una proposta di itinerario di vita spirituale raccontata ai fedeli, i quali, però, sono “veri” fedeli perché non trattano Dio come oggetto di conquista. È “vero” fedele colui che probat, perspicit et contrectat de Verbo vitae incarnato. Si stabilisce, dunque, e con nettezza, che si tratta di due itinerari opposti e diversi. Il primo tratterà l’altro (che di volta in volta sarà Dio, l’uomo e il mondo) come oggetto da lucrare per il proprio bisogno e per il proprio soddisfacimento. Il secondo invece — documentato dall’esperienza di Angela — apre alla relazione trasformante che la presenza dell’altro porta alla propria esistenza.
Purtroppo era già attiva nell’occidente medievale quella che sarà la proposta di vita spirituale dedotta dalla teologia moraleggiante: il rimanere innervata nella meritocrazia della vita virtuosa. Non così sarà per la letteratura mistica, anche se verrà letta continuamente con ottiche deviate da certa teologia.
Il lavoro di monsignor Frezza aiuta anche nel fare giustizia di questi passaggi proprio per la sapienza con la quale si legge il testo, annotandolo con i rimandi obbligati e una traduzione italiana da troppo tempo mancante.
Mi sembra di rilievo assoluto, allora, segnalare come il testo di Angela sia estraneo alla necessità tutta moderna di un coordinamento mentale fra “teorico” e “pratico” dato da realtà scisse quali fede e ragione, esteriorità ed interiorità, attività e contemplazione. Ora si potranno leggere tali testi con un diverso accorgimento metodologico. In realtà un’esperienza come quella di Angela (una volta che si possa leggere bene!) rifiuta l’ organizzazione che i teologi vanno sempre più riservando alla vita interiore: una sequenza di gradi ascetici sempre coperti dall’attività faticosa del proposito umano. E non credo di sbagliare di molto se un testo di tal genere, riservato ai “veri fedeli”, innesca una campagna catechetica contro i falsi profeti che non sono (dagli Atti degli apostoli in poi) i “veri fedeli”. Ancora nel Memoriale (51, 7-9), si legge: «E da allora all’anima rimase quella letizia, con la quale l’anima comprendeva in quale stato quell’uomo, Cristo, sta in cielo, voglio dire che con essa vediamo la nostra carne che è una unione fatta con Dio (unam sotietatem esset facta cum Deo). E questa singolare gioia appartiene all’anima molto meglio di quanto si possa scrivere o narrare».
Proprio perché si tratta di una relazione vera, si racconta anche la difficoltà di una tale relazione. Una sorta di disperazione è ampiamente documentata quando Angela si accorge che Cristo, suo amore, non è più nel suo cuore. Uno stato di abbandono totale la deprime, una desolante solitudine la estranea da tutto: l’amato di un tempo è perso e lei definisce tale stato col termine “tenebra”. Il non-essere della presenza del suo amato, è la tenebra, è il nulla. La tenebra è, allora, la morte, la negazione, la contraddizione, la differenza; cioè il senso dell’essere umano come nulla in quanto diverso e lontano dall’altro, da Dio. Questa tenebra è anche e contemporaneamente il morire dell’immagine dell’altro, di Dio, che l’uomo normalmente si costruisce a suo uso e consumo, e proprio per questo, accede — in un passaggio decisivo — ad una nuova comprensione, insperata e indeducibile, quella di aver ri-trovato Dio nella tenebra. Lo trova perché ha definitivamente smesso di procedere perfino per mezzo del puro amore. Ora, attratta da Dio, prende coscienza e vede come il dato permanente della sua operatività, e il bagaglio del merito, svelati nella loro reale impotenza, siano sposati — e dunque mutati — da Dio.
Come pochi nella storia cristiana, Angela da Foligno radicalizza così l’esperienza del cristiano trovando un filo narrativo alla pienezza promessa dalla fede. Un lavoro come quello che presentiamo autorizza una considerazione scientifica circa i testi mistici più adeguata delle melense suggestioni di una certa teologia moralizzante che continua a leggere queste testimonianze come un vademecum per i “coltivatori diretti di Dio”. Qui si tratta di un’affermazione di bene posseduto, talmente esclusivo e certo che ogni altro motivo non ha titolo di minimo baratto. Un orizzonte di felicità non frutto di virtù propria ma dono dell’altro forse per i più agognato, ma che resta per Angela e per i tanti mistici cristiani feriale presenza, anche se devastata da un dire inadeguato: una vera beatitudine di natura esclusiva, comunque più diffusa di quanto si possa credere.

Fonte: L’Osservatore romano, lunedì-martedì 28-29gennaio 2013, p. 4.

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