Il Gentile aperto alle fedi
di Gianfranco Ravasi
(da: Il Sole 24Ore, domenica 19 agosto 2012)
La curatrice, Sara Muzzi, mi invia il volume con una dedica
essenziale: «Un Cortile dei Gentili medievale!». A molti lettori è, infatti,
nota la mia iniziativa, sulla scia di un invito inserito in un discorso di
Benedetto XVI, a costituire uno spazio di dialogo tra credenti e non credenti,
ponendolo all'insegna di quell'atrio che nel tempio ebraico di Gerusalemme
poteva ammettere anche i pagani, così che voci e sguardi s'incontrassero, pur
nella diversità delle identità. Chi è mai il precursore medievale di questa
intuizione?
È un sorprendente e affascinante personaggio del XIII secolo di Palma di Maiorca, Raimondo Lullo: quand'ero prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, tra i non pochi che chiedevano di attingere a un cospicuo fondo di codici manoscritti lulliani là custodito c'era Umberto Eco che mi confessava la sua sconfinata ammirazione per questa figura proteiforme. Sposato con due figli, funzionario del re Giacomo II, cultore di poesia trobadorica, si converte in seguito a un'apparizione del Crocifisso; si fa pellegrino, si consacra alla studio dell'arabo e della filosofia e teologia musulmana accanto a quella cristiana; si ritira su un monte, viaggia a Montpellier e a Parigi dal re e a Roma dal Papa, cade in depressione a Genova, ma rianimato dallo spirito del dialogo, si reca in missione a Tunisi, da dove è espulso e ripara a Napoli.
Si sposta tra Barcellona, Maiorca, Parigi e Anagni (da Bonifacio VIII), s'imbarca per Cipro, rientra a Parigi, s'imbarca per una nuova missione in Algeria ove è imprigionato. Espulso, fa naufragio presso Pisa, corre dal Papa che è ad Avignone, si reca a Parigi e a Vienna per partecipare all'omonimo concilio del 1311-12. Si trasferisce a Messina e di lì a Tunisi e, infine, probabilmente nella sua terra di nascita, muore tra il 1315 e il 1316 ultraottantenne. In questa girandola frenetica di viaggi, eventi, incontri e scontri riesce a scrivere una valanga di testi (ad esempio, quando è a Messina in un anno, nel 1313, compone almeno una trentina di scritti). Ma la sua curiosità e l'ansia di confronto interculturale e interreligioso erano sbocciate in quell'osservatorio privilegiato ove aveva visto la luce, l'isola catalana di Maiorca protesa sul Mediterraneo con le presenze vivaci e non conflittuali delle tre religioni monoteistiche: cristianesimo, ebraismo e islam.
Ora, l'opera Il libro del Gentile e dei tre Savi, che Sara Muzzi mi ha inviato (con la traduzione dal catalano di Anna Baggiani, scomparsa durante la stampa del testo) incarna in modo geniale proprio la passione di Lullo per il confronto tra culture e fedi diverse. Tra l'altro egli, definito «geniale plasmatore della lingua catalana», una lingua viva anche da noi ad Alghero, scriveva pure in arabo, la lingua della "missione", e in latino e aveva costituito una fondazione per l'insegnamento plurilinguistico perché «tutte le genti si comprendessero, si amassero e convenissero per servire Dio». Instancabile, compose almeno 280 opere inseguendo tutto l'arco dello scibile in un eclettismo che spaziava dalla teologia alla medicina, dalla filosofia all'astronomia, dalla logica al diritto, dalla retorica alla matematica, dalla mnemotecnica alla mistica, dalla politica alla pedagogia e altro ancora.
Forse ammiccando al Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Abelardo (1141-42), Lullo mette in scena tre sapienti, un ebreo, un cristiano e un musulmano che cercano di dimostrare a un Gentile (un filosofo agnostico) la verità delle loro fedi, aprendo però un percorso teso a convergere verso un unico Credo. Infatti, passeggiando e discutendo, i tre Savi scoprono un prato con una fontana e cinque alberi. Là una misteriosa nobildonna, il cui nome è Intelligenza, li guida in un arabesco metaforico le cui ramificazioni tematiche e logiche si sviluppano proprio lungo quei cinque alberi, dotati di altrettante nuvole di fiori (49 per tre piante, 21 e 7 per le altre). Il simbolismo numerico è dominante e nel lettore crea un senso di spaesamento e di vertigine. Ma l'autore tiene le fila perché si approdi a quella meta unificatrice che non è, però, un sincretismo incolore, bensì la volontà di ricerca e di dialogo permanente nella reciprocità e nel rispetto.
Scrive, infatti, un esegeta lulliano, Orlando Todisco: «Lullo riflette a partire dai momenti più alti delle tre religioni. La sua è una presa d'atto di ciò che le tre religioni hanno saputo produrre, che egli evoca per risvegliare la coscienza critica e attivare un processo di crescita verso un'intesa sostanziale tra uomini di razze e di culture diverse». È, comunque, interessante scoprire l'indicazione della curatrice secondo la quale nella letteralità del testo, che descrive il dialogo interreligioso fra i tre monoteismi, si intuisce in filigrana un metatesto allegorico che introduce l'itinerario dell'anima verso la conoscenza di Dio sotto la guida dell'arte coi suoi simboli e le sue metafore da decodificare.
Tanto rimane da dire su quest'opera, così fluida e rigorosa al tempo stesso, e sul suo autore, artefice di una "scuola di missione" fondata non sull'imposizione attraverso la crociata, ma sul confronto intellettuale. Vorrei solo evocare il suo testamento-confessione, tratto da un'opera del 1311 ironicamente sottotitolata (il titolo è Phantasticus) «Disputa del chierico Pietro con l'insensato Raimondo»: «Sono stato sposato, ho avuto figli, ero adeguatamente ricco, dedito al piacere e alle cose del mondo. Ho volentieri abbandonato tutto ciò per poter procurare onore a Dio e beneficio agli altri e per esaltare la santa fede. Ho appreso l'arabo, più volte sono andato a predicare ai saraceni e per la fede fui imprigionato, incarcerato e bastonato. Ho faticato per 45 anni a spingere la Chiesa e i principi cristiani al bene del popolo. Ora sono vecchio e povero, ma resto della stessa idea e ci resterò fino alla morte, se il Signore me lo concederà. Tutto ciò ti sembra un'insensata utopia o non ti sembra tale? Sia la tua coscienza a giudicare...».
Raimondo Lullo, Libro del Gentile
È un sorprendente e affascinante personaggio del XIII secolo di Palma di Maiorca, Raimondo Lullo: quand'ero prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, tra i non pochi che chiedevano di attingere a un cospicuo fondo di codici manoscritti lulliani là custodito c'era Umberto Eco che mi confessava la sua sconfinata ammirazione per questa figura proteiforme. Sposato con due figli, funzionario del re Giacomo II, cultore di poesia trobadorica, si converte in seguito a un'apparizione del Crocifisso; si fa pellegrino, si consacra alla studio dell'arabo e della filosofia e teologia musulmana accanto a quella cristiana; si ritira su un monte, viaggia a Montpellier e a Parigi dal re e a Roma dal Papa, cade in depressione a Genova, ma rianimato dallo spirito del dialogo, si reca in missione a Tunisi, da dove è espulso e ripara a Napoli.
Si sposta tra Barcellona, Maiorca, Parigi e Anagni (da Bonifacio VIII), s'imbarca per Cipro, rientra a Parigi, s'imbarca per una nuova missione in Algeria ove è imprigionato. Espulso, fa naufragio presso Pisa, corre dal Papa che è ad Avignone, si reca a Parigi e a Vienna per partecipare all'omonimo concilio del 1311-12. Si trasferisce a Messina e di lì a Tunisi e, infine, probabilmente nella sua terra di nascita, muore tra il 1315 e il 1316 ultraottantenne. In questa girandola frenetica di viaggi, eventi, incontri e scontri riesce a scrivere una valanga di testi (ad esempio, quando è a Messina in un anno, nel 1313, compone almeno una trentina di scritti). Ma la sua curiosità e l'ansia di confronto interculturale e interreligioso erano sbocciate in quell'osservatorio privilegiato ove aveva visto la luce, l'isola catalana di Maiorca protesa sul Mediterraneo con le presenze vivaci e non conflittuali delle tre religioni monoteistiche: cristianesimo, ebraismo e islam.
Ora, l'opera Il libro del Gentile e dei tre Savi, che Sara Muzzi mi ha inviato (con la traduzione dal catalano di Anna Baggiani, scomparsa durante la stampa del testo) incarna in modo geniale proprio la passione di Lullo per il confronto tra culture e fedi diverse. Tra l'altro egli, definito «geniale plasmatore della lingua catalana», una lingua viva anche da noi ad Alghero, scriveva pure in arabo, la lingua della "missione", e in latino e aveva costituito una fondazione per l'insegnamento plurilinguistico perché «tutte le genti si comprendessero, si amassero e convenissero per servire Dio». Instancabile, compose almeno 280 opere inseguendo tutto l'arco dello scibile in un eclettismo che spaziava dalla teologia alla medicina, dalla filosofia all'astronomia, dalla logica al diritto, dalla retorica alla matematica, dalla mnemotecnica alla mistica, dalla politica alla pedagogia e altro ancora.
Forse ammiccando al Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Abelardo (1141-42), Lullo mette in scena tre sapienti, un ebreo, un cristiano e un musulmano che cercano di dimostrare a un Gentile (un filosofo agnostico) la verità delle loro fedi, aprendo però un percorso teso a convergere verso un unico Credo. Infatti, passeggiando e discutendo, i tre Savi scoprono un prato con una fontana e cinque alberi. Là una misteriosa nobildonna, il cui nome è Intelligenza, li guida in un arabesco metaforico le cui ramificazioni tematiche e logiche si sviluppano proprio lungo quei cinque alberi, dotati di altrettante nuvole di fiori (49 per tre piante, 21 e 7 per le altre). Il simbolismo numerico è dominante e nel lettore crea un senso di spaesamento e di vertigine. Ma l'autore tiene le fila perché si approdi a quella meta unificatrice che non è, però, un sincretismo incolore, bensì la volontà di ricerca e di dialogo permanente nella reciprocità e nel rispetto.
Scrive, infatti, un esegeta lulliano, Orlando Todisco: «Lullo riflette a partire dai momenti più alti delle tre religioni. La sua è una presa d'atto di ciò che le tre religioni hanno saputo produrre, che egli evoca per risvegliare la coscienza critica e attivare un processo di crescita verso un'intesa sostanziale tra uomini di razze e di culture diverse». È, comunque, interessante scoprire l'indicazione della curatrice secondo la quale nella letteralità del testo, che descrive il dialogo interreligioso fra i tre monoteismi, si intuisce in filigrana un metatesto allegorico che introduce l'itinerario dell'anima verso la conoscenza di Dio sotto la guida dell'arte coi suoi simboli e le sue metafore da decodificare.
Tanto rimane da dire su quest'opera, così fluida e rigorosa al tempo stesso, e sul suo autore, artefice di una "scuola di missione" fondata non sull'imposizione attraverso la crociata, ma sul confronto intellettuale. Vorrei solo evocare il suo testamento-confessione, tratto da un'opera del 1311 ironicamente sottotitolata (il titolo è Phantasticus) «Disputa del chierico Pietro con l'insensato Raimondo»: «Sono stato sposato, ho avuto figli, ero adeguatamente ricco, dedito al piacere e alle cose del mondo. Ho volentieri abbandonato tutto ciò per poter procurare onore a Dio e beneficio agli altri e per esaltare la santa fede. Ho appreso l'arabo, più volte sono andato a predicare ai saraceni e per la fede fui imprigionato, incarcerato e bastonato. Ho faticato per 45 anni a spingere la Chiesa e i principi cristiani al bene del popolo. Ora sono vecchio e povero, ma resto della stessa idea e ci resterò fino alla morte, se il Signore me lo concederà. Tutto ciò ti sembra un'insensata utopia o non ti sembra tale? Sia la tua coscienza a giudicare...».
Raimondo Lullo, Libro del Gentile
e dei tre Savi, a cura di Sara Muzzi
e Anna Baggiani, Paoline, Milano,
pagg. 350, € 36,00.
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