giovedì 29 novembre 2012



Siamo costanti e non temiamo di morire per Cristo
La passione dei primi martiri francescani in Marocco



Rendiamo noto che è disponibile, grazie al contributo di p. Pietro Messa, Frate Minore e Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani, la traduzione italiana più antica che ci è giunta della Passio dei Protomartiri Francescani di cui alcune reliquie sono custodite nella chiesa di S. Antonio a Terni.



Presentazione

Nel momento attuale, di una società sempre più multirazziale, multi etnica e multi religiosa la vicenda dei Protomartiri francescani risulta assai imbarazzante e così, rispetto al più confacente incontro di san Francesco con il Sultano[1], la si ignora, o si cerca di esorcizzarla, oppure di espellerla dalla tradizione e storia francescana con affermazioni più o meno riducibili al fatto che non compresero la novità del Santo d’Assisi. Tuttavia nella vicenda non solo della storia minoritica, ma persino degli anni in cui visse frate Francesco vi sono anche questi frati Minori uccisi in Marocco nel 1220 circa e appare abbastanza scontata la contrapposizione tra il presunto atteggiamento dialogante di Francesco d’Assisi con la vicenda dei Protomartiri francescani finita in modo cruento[2].
Studi recenti hanno mostrato che nella più antica narrazione della Passio Sanctorum Martyrum fratrum Berardi, Petri, Adiuti, Accursii, Othonis in Marochio martyrizatorum[3] il punto focale è l’affermazione che i cinque frati, dopo che fu emessa nei loro riguardi la sentenza di morte, si ripetevano l’un l’altro: «Orsù fratelli! Abbiamo trovato quello che cercavamo: siamo costanti e non temiamo di morire per Cristo!». Quindi l’intenzione dell’agiografo non è tanto quella di mostrare la crudeltà degli infedeli e neppure un metodo di predicazione ai saraceni, ma che i “nuovi martiri” provenienti dagli ordini mendicanti, e più precisamente dai frati Minori, non hanno nulla di meno da quella radicalità evangelica dei primi secoli cristiani[4].
Oltre alla puntualizzazione di tale prospettiva con cui la narrazione della loro vicenda è stata scritta – che contribuisce a evitarne letture anacronistiche, con cui il passato è letto secondo i bisogni del presente, indirizzati a giustificare uno scontro di civiltà o ad esorcizzarlo – certamente non è possibile misconoscere che la posizione verso gli infedeli è tipica del tempo. E davanti a ciò, più che un chiedere perdono per tale atteggiamento, contribuisce maggiormente a una onestà intellettuale quanto affermato da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Operosam diem indirizzata al cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, in occasione del xvi centenario della morte di sant'Ambrogio, vescovo e dottore della Chiesa[5].  In questo documento, Giovanni Paolo ii, pur elogiando il pensiero del Santo, afferma che «inadeguato si rivelò» l'atteggiamento avuto da Ambrogio riguardo agli ebrei. Infatti il Pontefice parlando del rapporto di Ambrogio con le autorità civili scrive:
Era una strada difficile da percorrere, tutta da inventare; ed Ambrogio dovette di volta in volta precisare meglio modalità e stile. Se gli riuscì di coniugare fermezza ed equilibrio negli interventi già menzionati — nella questione cioè dell'altare della Vittoria e quando fu richiesta una basilica per gli ariani — inadeguato si rivelò invece il suo giudizio nell'affare di Callinico, quando nel 388 venne distrutta la sinagoga di quel lontano borgo sull'Eufrate. Ritenendo infatti che l'imperatore cristiano non dovesse punire i colpevoli e neppure obbligarli a porre rimedio al danno arrecato, (Cfr. S. Ambrosii, Ep. extra coll. i, 27-28: SAEMO 21, p. 188) andava ben oltre la rivendicazione della libertà ecclesiale, pregiudicando l'altrui diritto alla libertà e alla giustizia[6].
Leggendo questo brano si rimane ammirati dal profondo senso della storia che viene colta nella sua contraddittorietà drammatica, senza piegarla alle esigenze o categorie contemporanee, ma nel frattempo la capacità di un giudizio evangelico su di essa. Potremmo dire che Giovanni Paolo ii ha saputo unire, tenendoli distinti, il giudizio descrittivo della realtà dal giudizio valutativo. Prima viene la descrizione della realtà storica, in aderenza alle fonti, e poi con la sua autorità morale ne dà un giudizio valutativo[7]. Ciò gli permette in contemporanea di essere attento alla dimensione storica, ma senza edulcorarla o rimanerne prigioniero. Così noi possiamo ammirare la totale affezione a Cristo dei Protomartiri francescani, fino a versare il proprio sangue, ma nel frattempo riconoscere come inadeguato – per la consapevolezza attualmente raggiunta dalla Chiesa ed espressa nel concilio Vaticano II – il loro  giudizio nei confronti della fede altrui[8].
Pietro Messa
 



Passione dei santi frati martiri Berardo, Pietro, Adiuto, Accursio, Ottone,
uccisi in Marocco
 

Introduzione
Allorché il beatissimo nostro padre Francesco si accorse che era destinato – come il patriarca Giacobbe – a dare origine a un grande popolo, e che i suoi figli sarebbero diventati numerosi come le stelle del cielo, cominciò a desiderare di giungere, mediante i suoi frati, a tutte e quattro le parti del mondo, come già gli era stato rivelato, e a pensare che la sua religione avrebbe steso i suoi rami, come un albero robusto, fino alle estremità della terra. Perciò, in un capitolo, mandò i suoi frati a tutte le regioni della terra dove si venerava la fede cattolica.
Ma fino a quel momento la loro regola non aveva avuto alcuna bolla pontificia, né portavano con sé alcuna lettera apostolica che garantisse dell’approvazione del loro ordine; per cui – specialmente al di là delle Alpi – molte volte furono sospettati di errore e eresia dai fedeli e, soprattutto, dal clero.
In quel tempo si diffuse in Spagna una grande quantità di eretici. Il beato Francesco, per opporsi al loro dilagare, mandò alcuni frati a combattere l’eresia e a confortare i fedeli nella fede cattolica. Questi frati giunsero fino n Portogallo. Ma la gente, vedendoli tanto dissimili dagli altri religiosi – scalzi, poveramente vestiti, di lingua forestiera – temette che fossero eretici, e non concessero ad essi di dimorare tra loro.
Regnava allora, in Portogallo, Alfonso, terzo re della dinastia cristiana, figlio del re Sancio II, di buona memoria. Sua moglie si chiamava Urraca, regna assai pia, onesta, umile e devota. I frati, avendo sentito parlare della sua bontà, andarono a lei e la supplicarono umilmente per amore di Dio, a voler porre opportuno rimedio alle loro tribolazioni, che le raccontarono distesamente.
Essa allora esaminò diligentemente la loro condizione, perché erano venuti, che intenzioni avevano; e si rese conto che erano fedeli servi del Signore, e impetrò dal re che potessero prender dimora in due luoghi del suo regno, a loro piacimento.
Con grande soddisfazione e gioia, i frati scelsero Lisbona e Guimarraens; e con il favore e protezione della regina – che li amava ormai come una madre – edificarono iv due piccoli luoghi, in cui servivano al Signore.
In quello stesso tempo, nel luogo di Alanquer, in Portogallo, viveva un’altra signora timorata di Dio, figlia del re Sancio di gloriosa memoria e sorella di Alfonso, attuale re, e dell’Infante Pietro che, per discordia con il fratello Alfonso, era fuggito in Marocco, e combatteva in aiuto di quel regno contro altri infedeli.
Questa signora si chiamava regina Sancia, benché non si fosse mai sposata, ché anzi era una vergine purissima, la quale per amore della verginità non volle mai saperne di nozze; anzi una volta disse che non avrebbe preso marito neppure se avesse saputo che con ciò sarebbe entrata subito in paradiso. Ella nutriva molti poveri, e macerava la sua carne con digiuni e un aspro cilicio, e dormiva assai poco, coricandosi su sarmenti e scorse d’albero. Pregava le notti intere ed era tutta dedita alle opere di pietà.
Questa signora senti parlare della santità di quei frati Minori, e desiderò di vederli, con tanto ardore che incominciò a chiamarli a sé frequentemente, onde ascoltare dalle loro labbra le parole i vita; e contrasse con loro tanta famigliarità che teneva in casa sua degli abiti da frate, perché potessero cambiarsi quando giungevano inzuppati di pioggia.
Tra i frati con i quali aveva tanta dimestichezza ve n’era uno devotissimo, molto solitario, dedito interamente all’orazione e che sfuggiva a tutto potere di conversare con donne. A questo proposito si racconta che una buona ragazza, di nome Maria grazia, andava frequentemente da lui per sentire qualche sua parola. Ma egli non solo non voleva parlarle, ma neppure vederla, e fuggiva rapidamente da lei. Una volta, mentre così solitario stava in orazione, venne detta fanciulla, pregandolo con una certa insistenza e importunità di parlarle. Il frate allora le disse: «Vuoi sapere perché non ti parlo?». «Dimmelo» rispose prontamente. «Portami qui», soggiunse il frate, «fuoco e paglia, e te lo dirò ben chiaramente».
La ragazza gli portò quanto chiedeva e al suo invito diede fuoco alla paglia in sua presenza. Allora il frate disse: «Quanto ci guadagna questa paglia con il fuoco, altrettanto ci guadagna l’uomo di Dio a parlare con le donne. Quando invece parla con il Signore, allora sì che fa veramente gran frutto».
Quando quel santo frate, pieno di virtù, giunse al termine della sua vita, Dio – per mostrare a tutti, mediante prodigi, di quanto merito fosse – fece sì che dal luogo ove era il suo corpo splendesse tanta luce da meravigliare quanti videro, che furono molti.
Nella stessa ora, un canonico del monastero di Santa Croce in Coimbra, di nome Fernando Martino – il qual poi entrò nell’ordine dei frati Minori sotto il nome di Antonio, e dopo la morte fu ascritto al catalogo dei santi – mentre celebrava la Messa, vide l’anima di quel frate, sotto forma di bellissimo uccello, volare velocemente, passando appena attraverso il purgatorio, e salire al cielo.

Come il beato Francesco mandò i primi frati in Marocco
Nell’anno dell’Incarnazione del Signore 1219, undicesimo dall’inizio dell’Ordine dei frati Minori, fu ispirato per rivelazione divina al beato Francesco di mandare nuovamente i suoi frati in tutte le parti del mondo, non solo tra i fedeli, ma anche tra gli infedeli. Ed egli eseguì quanto gli era stato ispirato, e in un capitolo generale nominò dei Ministri Provinciali e assegnò loro le varie provincie da raggiungere.
E siccome due erano le parti della terra dove i Saraceni più furiosamente combattevano contro i Cristiani – e cioè verso Oriente nelle parti di Siria, e verso Occidente nell’Africa settentrionale – il beato Francesco scelse per sé di andare, con dodici frati, verso Damiata, mentre pensò di mandare in Marocco altri sei frati di grande perfezione, e cioè i frati Vitale, Berardo, Pietro, Adiuto, Accursio e Ottone.
Prima di spedirli li chiamò a sé e disse loro: «Figlioli miei il Signore, mi ha comandato di mandarvi alle terre dei Saraceni a predicare, a confessare la sua fede e a combattere la legge di Maometto. Anch’io andrò, per altra via, agli infedeli ed altri frati manderò per il mondo intero. Orsù, dunque, figlioli, preparatevi a compiere la volontà del Signore». Ed essi, umilmente chinandosi innanzi a lui, risposero: «Padre, siamo pronti ad obbedirti in ogni cosa».
E il beato Francesco, lietissimo della loro pronta obbedienza, si rivolse loro con grande soavità: «Figlioli carissimi – disse – perché possiate compiere il comando divino nel miglior modo possibile, per la salute delle anime vostre, fate attenzione specialmente a queste cose: abbiate sempre fra voi pace e concordia, e il legame di una indissolubile carità; fuggite l’invidia, che fu il principio della rovina dell’umanità; siate pazienti nelle tribolazioni, umili nelle prosperità, e così sarete vincitori in ogni battaglia. Imitate Cristo benedetto nella povertà, nell’obbedienza, nella purità: chè nostro Signore Gesù Cristo nacque povero, visse povero, insegò la povertà e nella povertà spirò l’anima sua; e per mostrare come amava la purità volle nascere da una Vergine, si fece precedere dall’esercito dei piccoli innocenti, consigliò e conservò la verginità, e passò di questa vita circondato da vergini; e anche l’obbedienza egli conservò dalla sua nascita fino alla morte di croce. La nostra speranza sia riposta unicamente in Dio il quale ci dirigerà e aiuterà. Portate con voi la santa Regola e il breviario, e recitate con perfezione l’ufficio divino. Obbedite tutti a frate Vitale, vostro fratello maggiore. Figlioli miei, benché io goda assai della vostra buona e generosa volontà, pure il mio cuore sente una grande amarezza, cagionata dal grande affetto, per la vostra partenza e per la vostra separazione; ma bisogna preferire sempre il comando del Signore alla nostra volontà. Vi prego di tenere sempre davanti agli occhi la passione del Signore, che vi fortificherà e animerà a soffrire da forti per lui».
Allora quei santi frati risposero umilmente: «Padre, mandaci dove vuoi, chè siamo pronti a compiere la tua volontà; ma tu, Padre, aiutaci con le tue preghiere a compiere l’obbedienza. Chè noi siamo giovani, e non siamo ancora usciti dall’Italia; e il popolo verso il quale andiamo ci è ignoto, ed è animato da grande odio contro i Cristiani. E noi siamo ignoranti e non conosciamo nulla affatto della loro lingua. E quando ci vedranno vestiti di abito tanto vile e cinti da una corda ci derideranno come fossimo dei pazzi e al tutto incapaci di seminare parole di vita. Per tutto questo abbiamo bisogno dell’aiuto delle tue preghiere. Buon padre, ma noi dove andremo senza di te? Come ci potremo separare da t? E come potremo noi – che ora diventiamo orfani e tristi senza di te – fare ciò che piace al Signore, se egli non ci rende forti con la sua grazia?». Con dolcezza, disse lo con grande fervore: «Andate, figlioli, e confidate in Dio, perché Lui che vi chiama vi darà la forza e la capacità di fare ciò che a lui piace».
Allora tutti e sei, inginocchiandosi, gli baciavano le mani e chiedevano la sua benedizione. E san Francesco, tutto bagnato di lacrime alzò gli occhi al cielo e li benedisse dicendo: «La benedizione di Dio Padre discenda sopra di voi, come discese sugli apostoli, e vi fortifichi, vi diriga, vi consoli nelle tribolazioni: non abbiate timore, perché il Signore è con voi come un irresistibile combattente».
  
Come dovettero lasciare frate Vitale solo e ammalato in Aragona
Dopo questo affettuoso addio i fraticelli si posero in cammino a piedi, senza bisaccia e scalzi, secondo il consiglio evangelico; e con l’aiuto di Dio giunsero in Spagna. Ma giunti che furono nel regno d’Aragona, frate Vitale infermò gravemente; e accortosi che il suo male andava per le lunghe, pensò che a causa della sua infermità poteva essere ritardata la missione per cui erano stati inviati, perciò chiamò intorno a sé gli altri cinque frati e disse loro: «Fratelli carissimi, vedete bene che la mia malattia si prolunga, e io non voglio esservi di impedimento ancora per altro tempo nel compimento della missione che vi è stata affidata per il servizio di Dio. Certo, io desidero ardentemente di venire con voi,, se ciò è di gradimento a nostro Signore Gesù Cristo; ma forse il Signore mi trattiene qui o perché, essendo io peccatore, mi giudica indegno della vostra santa compagnia, oppure perché ha altri disegni sopra di me. Per questo vi prego di continuare il vostro cammino per compiere la volontà di Dio ed eseguire l’obbedienza impostaci dal nostro Padre frate Francesco; ed io, come piacerà al Signore, rimarrò qui solo».
Allora quei cinque frati dissero: «O fratello nostro come potremo noi lasciarti qui, solo e infermo, fra gente sconosciuta, senza parenti e senza amici?». Ma frate Vitale, con le lagrime agli occhi, insistette: «Fratelli miei, giacché è volontà di Dio che io rimanga qui così, voi continuate la vostra strada. E poiché la battaglia che vi attende contro il diavolo è assai dura, ricordatevi dei consigli del nostro Padre frate Francesco, e non trasgredite mai i suoi comandi. E pregate il Signore anche per me».
I cinque frati allora abbracciarono tra le lagrime frate Vitale, e sospirando si accomiatarono: «Faccia il Signore che ci rivediamo nel regno dei cieli». E così frate Vitale rimase solo in Aragona, né più li rivide. Ma quando udí la nuova del loro martirio, si rallegrò molto per loro, ma pianse assai per se stesso, perché non partecipò al loro martirio. E rimase in questa tristezza fino alla morte, nutrendo sempre il desiderio di patire per Cristo.

Come predissero alla regina di Portogallo il loro martirio e il tempo della sua morte
Dunque, quei santi fraticelli, lasciato in Aragona frate Vitale, giunsero finalmente in Portogallo. Arrivati a Coimbra, la devota regina del Portogallo Urraca, di cui abbiamo parlato sopra, li fece chiamare a sé. Li interrogò sulla loro condizione, la loro patria e dove andavano. Essi risposero per ordine a tutte le domande, manifestarono il loro proposito e parlarono con grande fervore di Dio.
La regina, vedendo in loro tanto disprezzo del mondo e tanto fervore di desiderio di morire per Cristo, ne concepì una grande stima, come di perfettissimi servi del Signore, e li pregò con grande insitenza affinché chiedessero a quel Signore, per il quale tanto desideravano di subire il martirio, che si degnasse di manifestarle il giorno della sua morte.
I frati però, che erano veramente umili, si accusavano dicendo che erano dei poveri peccatori e che non potevano presumere di pregar Dio perché rivelasse i suoi segreti a persone tanto indegne, quali essi erano. Ma la regina, allora, forse ispirata da Dio, prese nuovamente a pregarli con le lacrime agli occhi a volersi rivolgere al Signore perché le rivelasse il termine della sua vita.
E i frati, non potendo più resistere a tanta devozione, promisero finalmente di pregare per lo scopo. Ed ecco che mentre stavano pregando con grande fervore per lei e per la sua intenzione, fu loro rivelato da Dio ciò che domandavano. Tornati dalla regina le dissero: «Signora, non vi dispiaccia quello che Dio intende disporre a vostro riguardo, ma rallegratevi invece nel Signore, poiché non c’è nessuno al mondo che ci ami quanto Lui. Egli dunque per mezzo nostro vi annuncia che fra breve vi toglierà da questo mondo, ma prima del signore vostro, il re. E questo sarà il segno certissimo della vostra prossima morte: sappiate con certezza che noi i quali ora siamo qui alla vostra presenza – fra breve moriremo per la fede di Cristo: e di ciò noi ci rallegriamo vivamente, perché Il Signore, che tanto ha patito per noi, vuole unirci al numero dei suoi martiri. Perciò, quando avremo finito i nostri giorni con il martirio in Marocco, i Cristiani porteranno con grande devozione i nostri corpi in questa città, per esservi sepolti e voi uscirete incontro a noi fuori delle mura per accoglierci con onore e devozione. Allora ricordatevi di quanto stiamo ora svelandovi, e sappiate con più sicurezza che quanto abbiamo detto si avverrà senza dubbio».
Tutto poi avvenne come avevano predetto, e perciò la regina in seguito fu ancor più devota a loro e all’ordine.
  
Come giunsero a Siviglia e dapprima furono condannati a morte e poi liberati
Partiti da Coimbra, giunsero ad Alanquer, ove viveva la signora Sancia, di cui abbiamo già parlato, figlia del re Sancio di buona memoria – il quale è sepolto nel monastero di Coimbra – e della regina Aldoncia, che era nativa di Aragona. Questa regina Sancia era una vergine piena di onestà e perfezione, e quei santi frati conversarono a lungo con lei delle cose di Dio e alla fine le manifestarono il proprio proposito.
Ed essa, approvando in pieno il loro disegno, li fece rivestire di abiti secolari, chè altrimenti i Saraceni non li avrebbero lasciati passare, come neanche i Cristiani lui avrebbero accolti sulle loro imbarcazioni attraverso il fiume, per non offendere i Saraceni, e specialmente i loro mercanti che scambiavano con essi molte cose dalle quali guadagnavano assai; e inoltre, se avessero saputo che andavano a predicare ai Saraceni, forse ne li avessero impediti, poiché preferivano i guadagni di questo mondo alla gloria di Dio. E così i frati, vestiti da secolari entrarono in Siviglia, e rimasero nascosti per otto giorni nella casa di un cristiano, e ivi deposero le vesti secolari.
Un giorno, infiammati dallo Spirito Santo, uscirono di casa, e senz’altra guida andarono fino alla principale moschea dove, senza alcun timore e disprezzando qualsiasi tribolazione di questo mondo, si fecero vedere in abito di monaci cristiani, facendo andare su tutte le furie i Saraceni. E quei santi frati, sentendosi crescere l’ardore e lo zelo, tentarono di entrare in moschea. Ma i Saraceni indignati, assalendoli con alte grida, spinte e bastonate, impedirono loro di farlo.
I santi frati, per nulla spaventati da quanto era successo, ma anzi maggiormente animati quasi da una dolcezza di martirio, si dicevano l’un l’altro: «Ma che stiamo a fare qui senza predicare? È necessario che noi esponiamo questa nostra vita terrena per la fede e l’onore di Cristo, e che confessiamo senza timore davanti al re infedele di questa città che Cristo è il vero Dio!».
Mentre così si eccitavano l’un l’altro, giunsero fino alla porta del palazzo reale. Li vide uno dei principali ufficiali del re e li interrogò: «Di dove siete?». «Veniamo dalle parti di Roma», risposero i frati. «Che cosa cercate e per quale ragione siete venuti?». «Vogliamo parlare al re per il bene suo e di tutto il suo regno». «Portate lettere o credenziali della vostra missione?». «La nostra ambasciata noi la portiamo non attraverso carte scritte, ma nella nostra mente e con le nostre parole». «Dite ame», aggiunse l’ufficiale «la vostra ambasciata e io la riferirò fedelmente al re». «Noi dobbiamo parlare prima al re», risposero essi, «e tu conoscerai tutto il nostro messaggio dopo e non prima».
Allora l’ufficiale salì dal re e gli raccontò per ordine tutto l’accaduto. Il re li fece venire alla sua presenza e tosto li interrogò: «Do dove siete? E chi vi ha mandato? E perché siete venuti?». I santi frati risposero per ordine e con coraggio a tutte le domande: «Noi siamo cristiani, e veniamo dalle parti di Roma. Siamo stati mandati a te dal Re dei re, Dio, nostro Signore, per la salute della tua anima, affinché, - abbandonando la setta superstiziosa del vilissimo Maometto – tu creda nel Signore Gesù Cristo e riceva il suo battesimo, senza il quale non puoi salvarti».
Il re allora pieno di furore disse: «Uomini maligni e perversi! Queste cose le dite a me solo o a tutto il mio popolo?». Ed essi con coraggio e volto ilare risposero: «Sappiamo, o re, che come tu sei il capo dei seguaci di quell’empia legge che fu promulgata da Maometto, pieno di spirito diabolico, così frai cattivi sei il peggiore di tutti, e nell’inferno ti aspetta una punizione più grave che per gli altri. Per questo diciamo queste cose principalmente a te, per condurre te e i tuoi sulla via della verità, nella quale finalmente possiate essere salvi».
A tali parole il re piano d’ira ordinò di troncare loro la testa. I frati allora con la gioia sul volto, mentre venivano allontanati dalla sua presenza si dicevano l’un l’altro: «Orsù fratelli! Abbiamo trovato quello che cercavamo: siamo costanti e non temiamo di morire per Cristo!».
In quel momento il grande ufficiale di corte disse loro: «O miseri, perché volete andare così, incontro alla morte? Ascoltate il mio consiglio: ritirate quello che avete detto contro la nostra legge e il messaggero di Dio Maometto, e abbracciate l’islamismo; se così farete, vivrete e avrete molte ricchezze in questo mondo!». I santi però risposero: «O misero! Se tu sapessi quali beni noi speriamo nella vita eterna per questa nostra morte, non ci offriresti queste cose temporali, così meschine».
Dopo di che li vide il figlio del re, e mosso a compassione, disse prudentemente al padre suo: «Padre, perché hai sentenziato in questa maniera? Perché ordini di ucciderli senza motivo? Guarda le leggi, interroga gli anziani, e poi giudica secondo il loro consiglio ciò che sarà giusto».
A queste parole il re, alquanto calmato, comandò che i frati venissero rinchiusi sulla cima di una grande torre. Ed essi, accesi dal fuoco dello Spirito Santo, predicavano a gran voce, dalla sommità della torre a quanti entravano ed uscivano dal palazzo reale la fede di Cristo e condannavano la legge di Maometto e quanti la osservavano.
Quando il re venne a sapere ciò, comandò di chiuderli nei sotterranei della torre del carcere, e poi li fece venire un’altra volta alla sua presenza: «Uomini miseri e pazzi, i vostri cuori non si sono ancora rivoltati da tanta turpitudine?». Ed essi risposero: «I nostri cuori sono sempre più saldi nella fede del nostro Signore Gesù Cristo».
Allora il re, chiamati a consiglio gli anziani e i sapienti, fece venire i frati davanti a tutti; e persistendo essi nel confessare costantemente la fede, disse loro: «Volete tornare alla terra dei cristiani, o volete andare in Marocco?». I frati risposero: «I nostri corpi sono in tuo potere; alle nostre anime però non puoi nuocere. Perciò mandaci dove vuoi, e noi siamo pronti di andarvi e di subire qualunque morte vorrai darci, per amore di Cristo!».

Come andarono in Marocco ed ivi furono presi
Qualche tempo dopo, per ordine del re, i cinque frati sopraddetti andarono in Marocco con un certo nobiluomo spagnolo, di nome Pietro di Fernando e con altri cristiani, E da principio furono accolti nell’ospizio dove dimorava l’accennato Infante Pietro, figlio del re di Portogallo, il quale era in discordia con suo fratello re Alfonso, onde per paura di lui era fuggito, e ora si trovava al servizio del re del Marocco.
Questo signor Infante accolse i frati con grande carità e devozione e li fece provvedere di viverei. Allora i frati, dovunque vedevano Saraceni adunati o per il mercato o per altro, si avvicinavano ad essi, e con grande audacia predicavano la legge di Dio. I Saraceni da principio si meravigliavano della loro predizione e li deridevano, come fossero dei pazzi. Ministro della parola era frate Berardo, che conosceva la lingua dei Saraceni.
Mentre una volta frate Berardo, salito su un certo rialzo in un angolo della città predicava come il suo solito, accadde che passasse di là il re Miramolino, il cui nome proprio era Aboidile o Abiacob, mentre si recava a visitare i sepolcri dei suoi predecessori, i quali si trovavano fuori della città di Marocco, presso le mura.
Al vedere quel frate che predicava, il re si stupì assai e lo riprese acerbamente, ritenendolo pazzo ed amente. Ma poiché egli non voleva desistere dal predicare, ché anzi continuava a proclamare iniqua e inutile la legge di Maometto, e salutare quella di Cristo, il re, acceso di furore, ordinò di espellere dalla città frate Berardo e gli altri quattro frati, e di farli ricondurre alle loro parti, dai cristiani, perché la loro venuta e la loro predicazione disgustavano non poco i Saraceni.
Allora l’Infante Pietro diede loro alcuni suoi servi che li condussero fino a Ceuta, e di là navigassero al più presto alle parti dei fedeli. Ma i santi frati lungo il viaggio licenziarono quei servi e tornarono alla città di Marocco; ed entrati in città cominciarono nuovamente a predicare ai saraceni sulla piazza. Ed ecco che vene uno ad annunciare all’Infante che quei frati che aveva fatto allontanare dalla terra, stavano a predicare in piazza.
Il re Miramolino, sentendo della loro venuta e predicazione, li fece chiudere in carcere e ordinò ai custodi di non dar loro né da mangiare né da bere, e neanche permettere che altri lo portasse loro. I custodi obbedirono con la massima scrupolosità.
Dopo venti giorni, rifocillati solo dalla consolazione spirituale, venne un’ondata insopportabile di caldo e un grande turbamento atmosferico. Allora il cadì Abobaturim, saraceno, il quale sembrava che stimasse e amasse la fede cristiana, suggerì cautamente al re di liberare i frati, perché forse la tempesta era sorta per causa loro. Allora il Miramolino li fece sciogliere dal carcere e li mandò ai cristiani che stavano in città, ordinando che li spedissero senza indugio alle terre dei cristiani.
Quando i frati furono levati dal carcere e condotti alla presenza del re, egli e quanti erano presenti si meravigliarono assai nel vederli ancora vivi, dopo essere stati in carcere venti giorni senza cibo. E quando il re li interrogò di che cosa si fossero sostentati durante tanti giorni, frate Berardo rispose che, se avesse voluto conoscere la fede cattolica, avrebbe potuto venire a sapere coem avevano potuto vivere tanto tempo in carcere, senza mangiare e senza bere.
Lasciati liberi, volevano subito predicare la parola di Dio ai Saraceni; ma i cristiani non li lasciarono predicare, dicendo che con la loro predicazione avrebbero irritato talmente il re contro i cristiani che erano colà, che li avrebbe tosto fatti ammazzare. E allora frate Berardo, sorridendo, lasciò di predicare al popolo. E i cristiani diedero a loro delle guide cristiane che li conducessero fino a Ceuta. Ma i frati, licenziati costoro durante il viaggio, tornarono di nuovo in Marocco.
Allora i cristiani fecero consiglio tra di loro e l’Infante Pietro li trattenne nel suo ospizio, e li pose sotto buona custodia non permettendo loro di uscire in pubblico, perché non succedesse che – predicando ancora – irritassero maggiormente il re, con pericolo di morte per tutti i cristiani.

Come i santi in una grande siccità ottennero dal Signore un’abbondante sorgente d’acqua viva
Dopo ciò il predetto Infante e altri baroni cristiani e molti Saraceni, raccolsero un eseercito e andarono ad espugnare alcuni Saraceni che si erano ribellati al re. I detti cinque frati seguirono l’esercito.
Vi era qui un certo saraceno che era considerato molto devoto e sapiente dagli altri Saraceni. Egli frequentemente disputava con i santi frati e sempre essi lo vincevano con i loro argomenti, per cui egli non potendo sopportare tanta confusione, si allontanò dalla sua patria; e da allora non fu più visto nell’esercito, né in Marocco.
Mentre Cristiani e saraceni ritornavano dalla guerra, giunsero in un certo luogo in cui non si trovava acqua da bere né per sé né per le cavalcature. E avendo già fatto tre giornate di cammino senza incontrare acqua, l’esercito si trovò talmente assetato che dovunque incontravano un po’ di terra umida si gettavano bocconi al suolo per succhiarla; e facendosi ancor più forte la sete, cominciavano già a disperare di poter sopravvivere.
Allora frate Berardo, premessa una fervente orazione, prese un bastone, scavò alquanto la terra e tosto zampillò tant’acqua che poterono bere a sazietà uomini e giumenti e riempirono anche gli otri. Alla vista di così grande manifesto e utile miracolo, tanto i Saraceni che i cristiani baciavano i piedi e gli abiti dei santi frati e da allora li ebbero in maggior venerazione e riverenza.
Dopo che si furono saziati gli uomini e gli animali, e furono riempiti gli otri, la fonte ch’era ivi zampillata si disseccò completamente.

Come furono presi e malmenati
Di ritorno alla città di Marocco, i santi frati furono tenuti nuovamente sotto custodia nell’ospizio dell’Infante, perché non uscissero come per l’innanzi a predicare. Tuttavia un venerdì uscirono di casa per un’apertura insospettata e, come l’altra volta, mentre il re Miramolino si recava a visitare il sepolcro dei re, predicarono audacemente al popolo.
Il re provocato ad ira comandò a un principe Saraceno che aveva assistito al miracolo dell’acqua, di prenderli e ammazzarli. Ma quel principe, per compassione, aspettò dall’ora terza fino a vespro prima di compiere l’ordine, attendendo che qualche cristiano supplicasse il re a revocare così crudele sentenza.
Tutti i cristiani invece, sia nobili che plebei – eccetto quelli fatti schiavi dai Saraceni – conoscendo la grande ira del re, per timore d’essere tutti uccisi si ritirarono nelle proprie abitazioni, ove, chiuse bene le porte, si tenevano nascosti. E i Saraceni a loro volta dall’esterno li tenevano circondati da ogni parte, così che tutti si aspettavano da un momento all’altro la morte per colpa di detti frati.
Di poi quel principe mandò le guardie e li fece venire in sua presenza. I frati, al vedere le guardie del principe si fecero con gran letizia il segno della croce e giunsero alla sua casa. Ma egli era assente, per cui alcuni soldati di corte li tennero dentro il palazzo reale e li affidarono a un eretico Latino.
Sul far dell’aurora li condussero nuovamente alla casa del detto principe. Ma non trovatolo neppure questa volta, quei ministri del diavolo, eccitati veramente dallo spirito diabolico li chiusero nel carcere maggiore e li percuotevano con schiaffi, pugni calci e in altre maniere.
Ma essi, come nulla fosse, anche nel carcere predicavano con fervore la parola di Dio tanto ai cristiani quanto agli eretici. Dopo tre giorni, il principe li fece introdurre alla sua presenza. Quei ministri del diavolo, fatti carnefici, denudarono completamente i santi frati, legarono loro le mani dietro il dorso, li flagellarono lacerandone le carni e insanguinandone tutto il volto, e così li presentarono al principe. E il principe, rivolgendosi a loro, disse: «Di dove siete?». «Siamo cristiani», risposero «dalle parti di Roma». «E perché», proseguì il principe, «dal momento che fra noi e i cristiani vi è tanta guerra avete avuto la presunzione di venire qui senza licenza?». «Noi siamo venuti qui», disse frate Ottone, «con la licenza del nostro superiore frate Francesco, il quale, per la salvezza degli uomini, sta pure andando per altre parti del mondo; e siamo venuti per predicare a voi infedeli – che per amore di Dio amiamo anche se siete nostri nemici – la fede è la via della verità».
Allora il principe Aba Said gli disse: «Qual è la via della verità?». Rispose frate Ottone: «Questa è la via della verità, che crediate che Dio, Padre, e Spirito Santo, e nel Figliuolo incarnato e crocifisso per la salvezza di tutti. E quelli che non credono questo, saranno tormentati irrimedialmente nel fuoco eterno».
Allora il principe Aba Said sorridendo disse: «E come fai a sapere questo?». Rispose il frate: «Lo so per la testimonianza di Abramo, Isacco, Giacobbe, di tutti i patriarchi e profeti e dello stesso nostro Signore Gesù Cristo che è la via, senza la quale l’uomo errante va fuori strada; la verità, senza la quale si inganna; la vita, senza la quale muore per tutta l’eternità. Per questo Maometto vi conduce nell’errore e, con la menzogna, alla morte eterna dov’egli con tutti i suoi aderenti è tormentato eternamente».
Allora il principe del re disse: «certamente voi siete pieni dello spirito diabolico, che vi fa dire queste cose». E acceso da grande ira li fece torturare con vari tormenti e flagellare aspramente, dopo averli separati uno dall’altro in diversi colai. Quei ministri del diavolo li legarono mani e piedi, legarono funi intorno al collo, li tirarono qua e là, e li flagellarono così aspramente che quasi ne misero allo scoperto le viscere. Sulle loro piaghe poi versarono olio bollente e aceto, e cosparso il pavimento di cocci, ve li gettarono sopra ignudi e ve li rivoltarono sopra per tutta la notte, avvicendandosi in diversi.
E la gente diceva: «O miseri! Perché sostenete tante pene per l a falsità? Convertitevi alla nostra legge e alla nostra fede e vivrete!». Ma essi non rispondevano loro parola, ma come soldati novelli intrepidi in mezzo a queste sofferenze lodavano il Signore e con voi altissime gridavano l’uno all’altro, esortandoli alla pazienza e alla morte. E quella volta furono custoditi e flagellati crudelmente da trenta Saraceni per quasi tutta la notte.
Nella stessa notte i custodi ebbero una visione: parve loro di vedere una gran luce scendere dal cielo, accogliere i santi frati, e portarli verso il cielo, in mezzo a una innumerevole moltitudine. Essi, molto spaventati, corsero da untale Pietro di Fernando, spagnolo, ch’era ivi prigioniero e da lungo tempo fungeva da siniscalco nella corte, e gli narrarono come avevano visto i detti frati salire al cielo con grande splendore. Ma egli rispose loro: «Non sono partiti, ché anzi sono ancora in carcere; e io li ho uditi per tutta la notte lodare il Signore, per cui non abbiate timore della loro partenza». Ma essi asserivano tenacemente il contrario. Alla fine li trovarono nel carcere in orazione.

Come il re del Marocco li uccise di propria mano
Il re del Marocco, all’udir queste cose arse di furore e ordinò che gli fossero condotti dinanzi. Venne a saperlo l’infante Pietro, uomo profondamente cristiano, il quale sospettando che fossero messi a morte si recò di mattina per tempo dal principe cui abbiamo spesso accennato e lo pregò di concedere – qualora fossero uccisi – che i loro corpi venissero sepolti fra i cristiani. E il principe glielo permise.
I santi Frati – legati mani e piedi, completamente spogli, a piedi nudi non ostante che fossero così piagati, le bocche piene di sangue – vennero condotti alla presenza del re, continuamente fustigati durante tutto il tragitto. Quando giunsero presso il palazzo reale il principe, ch’era uno dei maggiori, si incontrò con loro e disse: «O miseri stolti, perché soffrite tanti tormenti per la vostra fede, così falsa ed iniqua? Ascoltate il mio consiglio e avrete in questo mondo onori e beni, e nell’altro il regno eterno. Convertitevi alla legge di Maometto e vi sarà perdonato tutto ciò che avete detto contro di noi e la nostra legge, e avrete anche una buona posizione tra i Saraceni».
Allora frate Ottone rispose coraggiosamente: «Non aver compassione di noi, che attraverso tormenti – leggeri e momentanei – ci affrettiamo ala gloria  eterna; abbi compassione invece della tua povera anima, che sarà destinata al fuoco eterno dell’inferno se non ti convertirai di tutto cuore al nostro Signore Gesù Cristo e alla nostra fede, e non sarai battezzato in acqua e spirito santo in remissione dei tuoi peccati. Che cos’è questa tua nefandissima legge a cui vorresti convertirci? E che cos’è il tuo vilissimo Maometto?».
E così, prendendolo in giro e disprezzandolo con i gesti, sputava per terra. Il principe Abu Said, per quei gesti si arrabbiò assai e lo colpì fortemente sotto la mascella destra. Ma frate ottone offrì prontamente l’altra guancia e disse: «Il Signore ti perdoni, perché non sai quello che fai. Ecco l’altra guancia. Se vuoi, percuoti, perché son pronto a sopportarlo con pazienza secondo l’insegnamento di nostro Signore Gesù Cristo». Allora il principe chiese ai Latini che erano presenti: «Che cosa ha detto ora costui?». Ed essi risposero: «Niente. Solo che Dio ti perdoni».
Li portarono quindi alla presenza del re. E il re appena li vide ordinò che uscissero di là tutti i presenti, eccetto alcune donne. Quando tutti furono usciti, il re si volse ai santi frati: «Siete voi che avete disprezzato la nostra legge e la nostra fede e avete bestemmiato l’inviato di Dio?». Ed i frati risposero: «Noi non disprezziamo alcuna vera fede, ma la vostra, perché non è fede, ma falsità ed errore. Solo0 quella dei cristiani è fede vera e certissima, e questa non la bestemmiamo, ma la veneriamo e la difendiamo con tutte le nostre forze».
Allora il re disse: «Convertitevi alla nostra fede e io vi darò queste donne per vostre mogli e una gran quantità di denaro, e sarete molto onorati nel mio regno». Ma i beati martiri risposero: «Non sappiamo che farcene delle tue donne e del tuo denaro: noi disprezziamo tutto ciò per amore di Cristo».
Il re allora, come invaso da furore, si rivolse ad essi: «La mia potestà e la mia spada vi purgherà bene da tutte queste pazzie!». E i santi, con calma: «I nostri corpi e la nostra misera carne sono in tuo potere, ma le nostre anime sono solo nelle mani di Dio». Allora il re, acceso maggiormente d’ira, ordinò che gli portassero la spada, e presala con le sue proprie mani, separati i santi frati l’uno dall’altro, spaccò loro la testa proprio nel mezzo della fronte, e colpì con tanta forza che ruppe tre spade. E così con crudeltà disumana li uccise di mano propria.
I santi martiri subirono il loro martirio il 16 maggio 1220, nel quarto anno del pontificato di Onorio III, quasi sette anni avanti la morte di san Francesco.


Come dopo il martirio gli infedeli straziarono i santi corpi e insorsero contro i cristiani
Dopo questo macabro spettacolo le donne del Sultano gettarono fuori del palazzo i corpi e le teste fracassate dei martiri, e il popolo imbestialito prese delle corde, legò piedi e braccia delle vittime, e li trascinarono fuori del palazzo e delle mura della città, e colà giunti, strapparono le teste e le membra dai corpi, e le portarono qua e là, correndo, attraverso la città, con uno schiamazzo infernale.
Dopo aver così straziati e dispersi i corpi e le teste dei martiri per tutta la giornata, al sopraggiungere della notte le abbandonarono per la campagna circostante, quasi ebbri di tanta crudeltà, e quasi non si fossero saziati neppure dopo la loro morte nella sete della loro malizia.
Tra i cristiani invece, visto che i santi martiri avevano finito con sì glorioso martirio, alcuni, levando al cielo le braccia lodavano Dio, altri si aspettavano di poter raccogliere di nascosto le loro reliquie disperse. Ma i Saraceni, visto ciò, si radunarono in grandissima moltitudine e con gran furia incominciarono a gettare contro di essi una tal quantità di pietre e sassi, da formare come una grandinata che oscurava il sole.
Tuttavia, i cristiani – per merito dei santi martiri – riuscirono tutti a fuggire nelle proprie abitazioni senza subire alcun male. E per timore della morte, rimasero chiusi, nelle proprie case per tre giorni: tanto più che l’Infante Pietro quel giorno stesso aveva mandato due suoi scudieri sulla piazza – e cioè Pietro di Fernando e Martino di Alfonso – e i Saraceni li avevano uccisi.

Come non poterono bruciare le sacre reliquie

Il re, dietro suggerimento di alcuni Saraceni, ordinò che i corpi dei martiri venissero bruciati, perché i cristiani non li venerassero come santi, a vergogna dei Mussulmani. Fu perciò preparato un grande fuoco nella campagna, e i santi corpi vi furono gettati perché bruciassero completamente. Ma per virtù divina le fiamme si allontanavano dai corpi dei santi come una materia refrattaria, e si distinguevano completamente, come poi attestarono davanti all’Infante Pietro e altri cristiani, alcuni cristiani schiavi, che potevano accostarsi più liberamente alla scena, e anche alcuni Saraceni, amici dei cristiani.
Anzi, la testa di uno di loro fu più volte gettata nel fuoco, eppure non rimase alcun segno di bruciatura neppure nei capelli, come ancor oggi si può vedere nel monastero di Santa Croce di Coimbra ove riposano i corpi dei santi Martiri, ove viene mostrata intera con la pelle e i capelli. Dall’urna ove si conservano emana un liquore sanguigno e odoroso, come è noto per pubblica fama.

Come vennero puniti alcuni che presumevano toccare le sacre reliquie dopo aver commesso peccato

Alcuni Saraceni poi, sia per amicizia sia per guadagno, come anche alcuni cristiani schivi raccolsero le reliquie dei santi, e le offrirono al signor Infante. Questi le accolse con grande venerazione e le affidò a Giovanni di Roberto, canonico di Santa Croce in Coimbra, suo cappellano, uomo di riconosciuta pietà, e ad altri tre innocenti giovanetti, fra quelli che erano stimati più innocenti e puri del suo seguito: ché anzi li faceva custodire con molta diligenza, perché uscendo di palazzo non si incontrassero con donne capaci di macchiare la loro purità.
Costoro, per ordine dell’Infante si ritirarono in una stanza alta e solitaria, ove trattarono le reliquie dei santi Martiri, separarono la carne dalle ossa, e le disseccarono al sole.
Nel frattempo, mentre le reliquie venivano così preparate e i sopraddetti custodi stavano in quel luogo, un certo Pietro, di soprannome Rosario, volle salire a quella stanza ove si conservavano le sacre reliquie. Questo soldato aveva un’amante di Burgos, di nome Rosaria, cui era molto affezionato, e poiché erano vissuti lungamente insieme, egli aveva tratto da lei il suo soprannome. Questi mentre nel salire era giunto si e no alla metà della scala che conduceva alla sopraddetta terrazza, restò immobile e non poteva più né salire né scendere. Incominciò allora a gridare a gran forza: «Aiuto! Aiuto! Chiamatemi il confessore!».
Venne allora il detto canonico, ascoltò la sua confessione, dopo la quale il soldato lasciò per sempre quella donna. E in seguito a ciò ricuperò le forze e poté discendere dalla scala; ma non poteva parlare finché, d’ordine dell’Infante, il detto canonico non pose sopra il suo petto il teschio di uno dei martiri e allora recuperò integralmente la perduta loquela e la salute del corpo, come per l’innanzi.

Come la sacre reliquie, levatesi in aria, non si lasciarono toccare da un peccatore

Una volta, uno scudiero, di quelli addetti a trattare le reliquie dei santi, sul cui scudo stavano disseccando, si macchiò con un atto impuro. Di ritorno, volendo come la solito mettere a posto le reliquie, lo scudo su cui si trovavano si levò improvvisamente in aria così che non poteva toccarle. Pentitosi, appena si fu confessato le reliquie scesero al solito posto e si lasciarono toccare dalle mani del detto scudiero.
Per questi miracoli e per molti altri che furono operati, le sacre reliquie cominciarono ad essere prese in maggiore riverenza sia dall’Infante sia dagli altri della famiglia; e nessuno più che avesse qualche colpa sulla coscienza ardiva entrare nel palazzo ove erano custodite e sacre reliquie.
Un certo cavaliere, per nome Stefano di Pietro, soprannominato Margarido di Santarem, che fu presente a molti miracoli e ne rese testimonianza con giuramento davanti al Vescovo di Lisbona, confessò che molte volte egli stesso si trattenne dal commettere qualche colpa per paura di venir sorpreso in fatto come l’altro cavaliere di cui si è detto, per virtù delle sacre reliquie che doveva custodire e talvolta trattare.
   
Come l’Infante Pietro per loro merito fu liberato da molti pericoli ed insidie

Dopo ciò l’Infante fece due urne d’argento, e nell’una depose i teschi con la carne disseccata, nell’altra le ossa. E teneva queste reliquie nella sua cappella ove frequentemente si recava a supplicare con grande umiltà i santi Martiri, a volergli ottenere la grazia di potersi ritirare dalla terra dei Saraceni e tornare in patria, perché da molto tempo era trattenuto colà contro voglia.
E avvenne che il re Miramlino un giorno fece chiamare a sé l’Infante e gli diede generosamente la libertà di partire, aggiungendo che vi era qualcuno che gli suggeriva di ucciderlo, ma che egli non riteneva giusto di mandare a morte un tant’uomo, a prescindere dai grandi meriti acquistati per i servizi resi.
L’Infante avuta licenza dal re, partì dalla città di Marocco con suo seguito; e dopo un giorno e una notte di cammino giunse a un luogo ove i sentivano da vicino ruggiti di leoni e spaventosi ululati. Un immane terrore prese tutti, e, spinti dalla fede, collocarono dalla parte ove vedevano raccogliersi i leoni la cassa di legno in cui erano state riposte le urne argentee con le reliquie. Da quel momento non videro più i leoni, né udirono i loro ruggiti.
Il giorno seguente giunsero sul far della notte ad un luogo ove incrociavano molte strade; ma nessuno sapeva quale fosse la via più sicura, perché non avevano con sé alcuna guida. Allora l’Infante, confidando molto nell’intercessione dei santi Martiri, ordinò che si mandasse innanzi la mula che portava le reliquie dei Santi e che tutti seguissero la via ch’essa avrebbe scelta.
Così, nel dubbio, con piena fiducia nelle reliquie, si affidarono tranquillamente alla scelta di un animale irragionevole. La mula poi, guidata dalla Provvidenza, si voltò subito dalla via nella quale erano state preparate e tese inside all’Infante per opera di molti Saraceni. come gli fu riferito in seguito – ché allora né lui né gli altri del suo seguito sapevano niente di ciò. E la mula passò per una via poco praticata e aspra, attraverso monti e valli. E così un animale irragionevole li condusse per la strada più sicura fino a Ceuta.
Giunti a Ceuta trovarono, per disposizione divina, delle navi già pronte per salpare. Vi si recarono tosto e concedendo il Signore venti favorevoli, navigarono tranquillamente fino alle parti dei cristiani, secondo il desiderio di ognuno.
Nella prima sera di navigazione, al sopraggiungere delle tenebre, temettero che le due navi sulle quali erano saliti non andassero a sbattere e infrangersi sugli scogli. Allora tutti quelli che si trovavano sulla nave ove era la cassa delle reliquie dei Martiri si prostrarono davanti ad esse e supplicarono con gran devozione i santi Martiri a liberarli da sì gran pericolo. Ed ecco scendere improvvisamente dal cielo una gran luce, con la quale i marinai potevano ben vedere il mare da una parte e dall’altra.
E allora poterono accorgersi chiaramente che le navi erano veramente dirette contro alcuni scogli che apparivano in alto mare; ma per l’aiuto provvidenziale di quella luce poterono dirigere le imbarcazioni, evitare gli scogli, sfuggire il pericolo di morte e giungere finalmente sani e salvi nelle persone e nelle cose ai porti desiderati di Algesiras e Tarifa, e infine a Siviglia.
Ma il re del Marocco, pentito di aver permesso all’infante di tornare, mandò colà dei suoi emissari in tutta fretta con rapide imbarcazioni, per ricondurli in Marocco anche contro lor volontà. Ma l’Infante e i suoi furono tempestivamente avvertiti da alcuni cristiani, che per mare avevano preceduto i corrieri del re; per cui si diressero con tutta la velocità che fu loro possibile al regno di Castiglia.
I marinai avevano appena inalberate le vele, ed ecco giungere i soldati del re di Marocco, che volevano far prigioniero e riportare indietro l’Infante e tagliar la testa a tutti i suoi compagni. Ma liberati anche da questo pericolo per i meriti dei santi Martiri, giunsero sani e salvi in Spagna.

Come la regina di Portogallo con tutto il poplo di Coimbra rese onore alle reliquie dei santi martiri

Allorché finalmente l’Infante Pietro entrò in Portogallo, la fama delle sopradette reliquie si era sparsa dovunque. Mentre l’Infante con le reliquie si avvicinava a Coimbra, Urraca, regina del Portogallo, di cui abbiamo parlato all’inizio del nostro racconto, con tutto il popolo andò incontro ai sacri tesori e con grande devozione e solennità li accompagnarono fino al monastero di santa Croce in Coimbra, e ivi li deposero con i dovuti onori, e a lode e a glorificazione di Dio rifulsero di molti miracoli.
Allorché poi il beato Francesco, ch’era ancora in vita, udì il martirio dei detti frati, asultò di tutto cuore, e con gioia esclamò: «Adesso posso dire veramente di avere cinque frati Minori!».

La gloria dei santi dopo la morte e come si adempì la loro profezia della morte della regina

Affinché si adempisse la profezia fatta dai santi frati e rivelata alla regina – della quale abbiamo parlato più sopra – poco tempo dopo l’arrivo delle reliquie in Coimbra, la regina Urraca, piena di virtù, una notte passò di questa vita.
Nella stessa ora, don Pietro Nunez, canonico e sacrista del monastero di santa Croce – uomo ornato di ogni santità e confessore della regina – vide una processione interminabile di frati Minori entrare nel coro dei canonici, e cantare il Mattutino con una melodia ineffabile. Si stupì assai della cosa, e cominciò a pensare tra se come mai una così grande moltitudine di frati aveva potuto entrare mentre le porte del monastero erano chiuse; né credeva che a quel tempo potessero esserci tanti frati Minori in tutto il mondo; e ancora si meravigliava come mai avessero cantato Mattutino in maniera tanto insolita senza neppur suonare le campane.
Mentre era così soprappensiero, entrò nel coro e lo vide pieno di frati. Si avvicinò a uno di loro e chiese per dove e perché tanti frati erano entrati a quell’ora. Ed egli rispose: «Noi tutti che vedi qui presenti siamo stati in vita frati Minori, e ora regniamo gloriosi con Cristo. Per  questo – non essendo noi di questo mondo – le porte non hanno potuto impedirci di entrare, come vedrai anche alla nostra uscita».
Allora il canonico Pietro l’interrogò, perché erano venuti a recitare il mattutino con tanto concento di voci. E quel frate rispose: «Sappi, che or ora è morta la regina Urraca. E siccome di tutto cuore amò il nostro ordine e il beato Francesco, nostro Signore Gesù Cristo ci ha mandati qui a recitare con tutta solennità il Matutino in onore suo. E siccome tu era il suo confessore e specialissimo amico, Iddio volle che tu vedessi tutto questo».
Allora il canonico Pietro esclamò con gran sentimento: «Piacesse a Dio che potessi vedere in questo mondo il beato Francesco!». E tosto quel frate gli mostrò il beato Francesco risplendente di una gloria indicibile. Al vederlo, il canonico Pietro ne fu indicibilmente consolato, e continuava a ringraziarne Dio. Allora quello stesso frate gli indicò altri cinque frati che camminavano circondati di gloria particolare in quella processione, e  gli disse: «Quelli sono i frati che in Marocco subirono un glorioso martirio per Cristo e sono sepolti in questo monastero».  
Ma il canonico Pietro, benché godesse di una grande dolcezza spirituale per la visione avuta, rimaneva alquanto incerto sul fatto della morte della regina. A lui disse il frate: «Non dubitare della morte della regina, ma credi che quello che ti ho detto è vero. E questo sarà il segno che ti do: fra poco, mentre noi ripartiremo da questo monastero, verranno subito a battere alla porta e sentirai la nuova della morte della regina».
Allora tutta quella processione di frati uscì, a porte chiuse dal monastero, ed ecco che nello stesso momento alcuni messi della famiglia della regina bussarono alla porta e annunziarono che la regina era spirata. E così si compi la profezia, e nello stesso tempo fu mostrato quanto era stata gradita a Dio la devozione che la regina aveva avuto per l’Ordine dei frati Minori.

Dei miracoli operati dai santi dopo la morte

Aggiungiamo qui, in appendice alla storia che abbiamo narrata, alcuni pochi miracoli scelti fra i tanti che operarono questi santi Martiri frati Minori.
Anzitutto è da ricordare che mentre le sacre reliquie raccolte dai cristiani venivano lavate, uno scudiero si bagnò con quell’acqua una gamba ferita, e per i meriti dei Santi guarì immediatamente.
Martino Lopez, mentre stava con altri cristiani raccogliendo le reliquie dei santi Martiri presso la città di Marocco, fu gravemente colpito a un occhio dai Saraceni. Sulla ferita si posò una mosca, e il detto Martino cercò di cacciarla con l mano con cui aveva toccato i corpi dei Santi. A quel contatto prodigioso scomparve immediatamente ogni dolore e gonfiore, e per i meriti dei santi frati riebbe la sanità completa.
Vi fu anche un frate che soffriva di una certa infermità sulla faccia; vi passò sopra la mano che aveva toccato i santi corpi e subito fu pienamente risanato. Un altro aveva una grave malattia agli occhi; se li bagnò con l’acqua che era servita a lavare le reliquie e ottenne similmente la guarigione.
Un giovane gravemente infermo pregò con devozione il cappellano dell’Infante dicendo: «Signore, vedete come sono ammalato; ma per i meriti di questi santi martiri confido di essere liberato dal mio male, se potrò toccare qualche loro reliquia». Allora il cappellano prese un osso dei santi Martiri, lo intinse nell’acqua che poi diede a bere all’ammalato, il quale riacquistò piena salute. Un’altra bambina, che il cappellano aveva battezzata ancora quando stava tra gli infedeli, era gravemente tormentata dal demonio. Portata innanzi all’urna che conteneva i corpi santi, all’aprirsi di questa fu tosto liberata.
Quando l’Infante Pietro, nel ritorno dal Marocco come fu detto con il suo seguito giunse ad Astoria con le reliquie dei santi Martiri, il padrone della casa ove ospitava, al sentir raccontare tutti i prodigi che si narravano di dette reliquie, cominciò – presentando un ricco dono all’Infante – a supplicare come poteva a parole che gli fosse mostrata l’urna che conteneva le reliquie, per pregare. Quel signore da trenta anni era afflitto da paralisi e così colpito non poteva usare la lingua né le altre membra. L’Infante, mosso a pietà dalle sue preghiere, gli fece vedere l’urna affinché pregasse a suo agio. Ed egli gettandosi completamente a terra davanti all’urna pregava quei santi frati, con gran fervore e lagrime, per la propria guarigione, E sull’istante, alla presenza di tutti, riacquistò la loquela e la desiderata sanità di tutte le altre membra.
Nello stesso anno che i santi frati furono uccisi, l’ira divina si scatenò contro il re del Marocco e tutto il suo regno a vendicare la loro uccisione. Al re infatti si paralizzò la mano e il braccio con cui li aveva uccisi e tutta la parte destra del suo corpo, fino ai piedi. Poi per tre anni dalla morte dei Santi non piovve più in quella terra, dal che seguì una tale carestia e pestilenza che la moria durò per cinque anni, e facendosi sempre più forte l’incurabile male, gran parte di quella gente ne fu distrutta, così che il numero degli anni della vendetta divina eguagliò il numero dei frati uccisi, e così la pena fu in qualche modo proporzionata alla colpa.
Alfonso Dominguez, nativo di Siviglia, una notte si alzò con gli occhi così tenacemente chiusi da non poter vedere nulla, e neanche da poterli aprire. Non trovando alcun rimedio, venne al monastero ove riposano i santi corpi, e fatta orazione per la sua cecità apri tosto gli occhi e potè vedere chiaramente, come prima. Martino di Limone, da Coimbra, rimase cieco per tre settimane. Venne al sepolcro dei santi Martiri e fatta orazione dopo un’ora e mezzo ricuperò la vista.
A Domenico di Stefano, abitante in Coimbra, un giorno mentre mangiava gli rimase in gola per traverso un osso, in modo che non si poteva più smuovere né gli permetteva di parlare. Fece voto che se si fosse liberato avrebbe fatto un pellegrinaggio alla tomba dei santi Martiri, e tosto fu guarito e ricuperò la parola. Similmente Velasco di Stefano, mentre mangiava dell’anitra, gli si conficcò in gola un pezzo della carne della coda con gli ossicini, che gliela chiuse completamente così che non poteva mangiare né bere e parlava stentatamente. Pregò i santi Martiri e tosto lo rimise a riacquistò perfetta salute. Ancora, Domenica, figlia di Domenico fu tosto liberata per i meriti dei santi frati.
Vi sono molti altri fatti meravigliosi e miracoli, operati da Dio per mezzo dei santi Martiri in vita e in morte, che furono confermati con giuramento e per iscritto davanti a vescovi, a religiosi e ad altre persone degne di fede, a lode del nostro Signore Gesù Cristo, a cui sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Cosi sia.


Appendice
1. Vita del beato Antonio
La vicenda dei Protomartiri francescani si interseca nella agiografia antoniana, ossia le narrazioni della vita di sant’Antonio di Padova canonizzato da papa Gregorio IX nel duomo di Spoleto nel 1232. Così la Vita del beato Antonio, detta anche Legenda Assidua, narra:

Quando l’infante don Pedro trasportò dal Marocco le reliquie dei santi martiri francescani, fece sapere per tutte le province della Spagna com’era stato liberato in modo prodigioso per loro intercessione. Udendo il servo di Dio i miracoli che si compivano per i meriti dei martiri, sorretto dal vigore dello Spirito Santo e stringendo i fianchi con la cintura della fede, irrobustiva il braccio con l’armatura dello zelo divino. E diceva in cuor suo: «Oh, se l’Altissimo volesse far partecipe anche me della corona dei suoi santi martiri! Se la scimitarra del carnefice colpisse anche me, mentre in ginocchio offro il collo per il nome di Gesù! Avrò la grazia di veder questo? potrò godere un giorno così felice?». Questi e simili detti ripeteva tra sé tacitamente.
Non lontano dalla città di Coimbra, in un luogo chiamato Sant’Antonio, abitavano alcuni frati Minori, i quali sebbene illetterati, insegnavano con le azioni la sostanza delle Scritture divine. Essi, secondo le norme del loro istituto, venivano molto spesso a chieder l’elemosina al monastero dove viveva l’uomo di Dio. E un giorno essendosi Fernando appartato, secondo il solito, per salutarli, conversando, disse tra l’altro: «Fratelli carissimi, con vivo desiderio vorrei indossare il saio del vostro ordine, purché mi promettiate di mandarmi, appena sarò tra voi, alla terra dei Saraceni, nella speranza di esser messo a parte anch’io della corona insieme con i santi martiri». I frati, pieni di gioia nell’udire le proposte di un uomo così insigne, fissarono l’indomani per recargli il saio, troncando ogni indugio fomentatore di pericoli. Mentre i frati se ne tornavano lieti al convento, il servo di Dio rimase, dovendo chiedere all’abate la licenza per quanto aveva stabilito. La strappò a fatica, a forza di suppliche. Di buon mattino, memori della promessa, i frati giungono e, secondo il convenuto, vestono in fretta nel monastero il servo di Dio con l’abito francescano[9].

2. Processo di canonizzazione di Chiara d’Assisi
Nel novembre 1253, a distanza di pochi mesi dalla morte avvenuta l’11 agosto precedente, le sorelle della Comunità di San Damiano presso Assisi furono chiamate a testimoniare circa la santità di Chiara d’Assisi. Tra altre cose alcune testimoni narrano del desiderio di martirio che l’Assisiate espresse nel momento che venne a sapere della morte dei frati Minori in Marocco.

Sora Cecilia figliola de messere Gualtieri Cacciaguerra, monaca del monastero de Santo Damiano, giurando […] Anche disse che la preditta madonna Chiara era in tanto fervore de spirito, che voluntieri voleva sostenere el martirio per amore del Signore: e questo lo dimostrò quando, avendo inteso che nel Marocco erano stati martirizzati certi frati, essa diceva che ce voleva andare. Onde per questo essa testimonia pianse: e questo fu prima che così se infermasse. Adomandata chi era stato presente a questo, respose che quelle che furono presenti, erano morte[10].
Sora Balvina de messere Martino da Coccorano, monaca del monasterio de Santo Damiano, giuradno disse […] imperò che essa madonna stette vergine da la sua natività; intra le sore essa era la più umile de tutte et aveva tanto fervore de spirito, che voluntieri, per lo amore de Dio, averia portato el martirio per la defensione de la fede e de l’Ordine suo. E prima che essa se infermasse, desiderava de andare alle parti del Marocco, dove se diceva che erano menati li frati al martirio. Adomandata come sapesse le dette cose, respose che essa testimonia stette con essa per tutto lo preditto tempo, e vedeva et udiva lo amore de la fede e de l’Ordine che aveva la preditta madonna[11].

3. Giordano da Giano, Cronaca
Dettata verso il 1262, la Cronaca di Giordano da Giano ci trasmette la reazione di san Francesco nel momento che sente narrare le leggende dei frati uccisi in Marocco. Tutto ciò corrisponde a quanto espresso dall’Assisiate stesso: «Guardiamo con attenzione, fratelli tutti, il buon pastore, che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce. Le pecore del Signore l’hanno seguito nella tribolazione e nella persecuzione e in altri simili cose, e per questo hanno ricevuto dal Signore la vita eterna. Perciò è grande vergogna per noi, servi di Dio, che i santi hanno compiuto le opere e noi vogliamo ricevere gloria e onore con il solo raccontarle»[12].

Dei frati, poi, che passarono per la Spagna, cinque furono coronati del martirio. […] Quando furono riferiti al beato Francesco il martirio, la vita e la leggenda dei suddetti frati, sentendo che in essa si facevano le lodi di lui e vedendo che i frati si gloriavano del martirio di quelli, poiché egli era il più grande disprezzatore di se stesso e sdegnava la lode e la gloria degli uomini, rifiutò tale leggenda e ne proibì la lettura dicendo: «Ognuno si glori del proprio martirio e non di quello degli altri»[13].

4. Egidio di Assisi, I Detti
Uno dei membri della fraternitas minoritica della prima generazione, Egidio d’Assisi trascorse gli ultimi anni della sua vita presso il romitorio di Monteripido, presso Perugia, dove morì nel 1262. Molti cercavano di parlargli onde apprendere la sua sapienza, espressa mediante frasi tanto semplici quanto incisive. A prova di ciò sono la raccolta di Dicta a lui attribuiti che ebbero una grande diffusione, come dimostra l’abbondante tradizione di manoscritti. Tra essi vi è anche un rimprovero per l’indugio a canonizzare i Protomartiri francescani:

A frate Egidio pareva che non avessero fatto bene i frati prelati dell’ordine dei frati Minori a non adoperarsi con ogni sforzo davanti al papa per la canonizzazione dei frati Minori martiri, uccisi nel Marocco a causa della fede gloriosamente professata. Questo, diceva, i frati dovevano procurare non in vista della propria gloria, ma soltanto per l’amore di Dio e l’edificazione del prossimo. Se il papa avesse voluto porli solennemente tra i santi, sarebbe stata buona cosa, e se no, i frati sarebbero stati ugualmente scusati presso dio per essersi a ciò adoperati. E aggiungeva: «Se noi non avessimo avuto gli esempi dei fratelli venuti prima di noi, forse non saremmo nello stato penitenti in cui siamo […]»[14].

5. Bonaventura da Bagnoregio, Sermone per la festa di san Francesco
Bonaventura predicando a Parigi il 4 ottobre 1267, in occasione della festa di san Francesco, nonostante che la sua Vita beati Francisci – conosciuta come Legenda maior – sia ormai la versione ufficiale della vicenda, descrive la diffusione della fede a cui contribuì il Santo d’Assisi. Aggiungendo alcuni particolari alla vicenda di san Francesco, menziona proprio i primi frati Minori martirizzati:

Per tre volte [Francesco] volle andare [nelle terre d’]oltre mare et non vi riuscì a causa d’un naufragio, e si mise in cammino verso [la terra del] Miramolino in Spagna e in Marocco, dove successivamente i nostri frati furono martirizzati[15].

6. Sisto IV, Cum alias
Con lettera Cum alias papa Sisto IV – il frate minore Francesco Della Rovere – permette all’Ordine minoritico di celebrare nelle proprie loro chiese il giorno 16 gennaio, pubblicamente e solennemente, messe e recitare l'ufficio dei santi protomartiri Berardo, Pietro, Ottone, Accursio e Adiuto. Tale documento risulta essere più che un riconoscimento canonico della santità – ossia canonizzazione –, una permissione del culto  dei Protomartiri francescani da parte del Pontefice.

Roma, 7 Agosto 1481
A tutti i frati diletti figli dell'ordine dei Minori ovunque si trovino, ora e in futuro.
Considerando nondimeno quali furono i meriti beatissimi dei martiri Berardo, Pietro, Ottone, Accursio e Adiuto, i quali appartennero all'ordine dei frati Minori nel quale anche noi abbiamo praticato e vissuto, i quali dopo molte torture ad opera del re del Marocco per Cristo andarono incontro alla morte e meritarono gloriosamente la palma del martirio, nella stessa morte e in seguito brillarono di numerosi miracoli; acceso da questo evento si legge che il Beato Antonio da Padova sia passato dall'ordine dei Canonici Regolari, in cui allora si trovava, allo stesso ordine dei frati Minori: abbiamo concesso con Benevolenza e con l'Autorità apostolica, con sentenza indiscutibile che i predetti frati dell'ordine Minore possano pubblicamente e solennemente celebrare nelle loro chiese le messe e l'ufficio delle ore riguardo ai santi Martiri sopra ricordati. E in verità, poiché spesso il nemico avversario del genere umano cerca di scompigliare le buone e sante azioni, affinché qualcuno in futuro non possa ostacolare un'opera tanto pia e divina, con il presente disposto, secondo la scienza certa e l'autorità Apostolica, concediamo che i predetti frati Minori ovunque solennemente e pubblicamente possano in libertà e con sana e serena coscienza, applicando l'invocata autorità Apostolica, recitare e celebrare l'ufficio dei numerosi martiri anche per gli stessi Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto e Ottone nel duplice ufficio Maggiore e anche il 16 Gennaio, nel qual giorno morirono per effetto del martirio. Che nessuno osi opporsi a questa nostra concessione e che nessuno faccia nulla per opporvisi. Inoltre, poiché era difficile che la presente fosse diffusa ovunque,  provvediamo a che, in copia, con sottoscrizione di qualche pubblico notaio e con il sigillo dell'ordine o con certificazione del vicario generale dei frati Minori, questa festa Cristiana si diffonda e sia diffusa qualora la presente Bolla sia mostrata in originale.
Dato a Roma in San Pietro, sotto l'anello del Pescatore, nel giorno 7 Agosto 1481, ... anno X[16].

7. Lauda per i Protomartiri francescani
Testo: Fabrizio Mastroianni - Mauro Agosto (2012)
Musica: melodia dal Laudario di Cortona 91

Per amore dell’Amore,
ami ognun il Redentore

Di tua valle, o Valentino
Spinto dall’amor divino
Mossesi nel suo cammino
Lo primier frate minore

Cinque giovani affascinati
Con lui presto furon frati,
al suo fianco incamminati
a testimoniar l’Amore.

Un dì i cinque fuor chiamati
Da Francesco, che abbracciati
Disse lor: siamo mandati
Per l’annuncio del Signore

Sulla croce inchiodato
Cristo a noi ha ordinato
Che a ciascun sia predicato
Il Vangelo dell’Amore

Che nessun sia trascurato
Che ad ognuno sia mandato
Un di noi, che infiammato
Sia di Cristo annunciatore

Così in Spagna voi andaste
A Coimbra soggiornaste
Per Siviglia poi passaste
Predicando a tutte l’ore

Pel Marocco navigaste
Ed intrepidi annunciaste
Il martirio desiaste
Per servire con ardore.

Fame e sete tolleraste
Vento e sol così scampaste
Dalla sabbia acqua gustaste
Voi pregando con ardore

maltrattati e insultati
predicaste ostinati
torturati, flagellati
tutto a lode del Signore

Oh! La testa è insanguinata
E la carne arroventata,
ma la vampa umiliata
già divien Luce d’Amore

Il corpo in urne ben serbato
Di  ritorno ha già aiutato
Una vision ha illustrato
Voi innalzati in grand’onore

Tanto esempio contemplando
monacello tal Fernando
Vita e stato commutando
Tosto fu frate minore

Or Antonio, nuovo nome,
Ad Assisi ! andar dispone
Ma un desir pur gli s’impone
Veder Terni, Val d’Amore

Della scienza d’Agostino
Più poté l’Amor divino
Che tra i tuoi, o San Valentino
Fu dei deboli il vigore

Di tua Valle, o Valentino,
Spinti dall’amor divino
cinque giovani in cammino
sol cantaron pace e amore


Bibliografia

E. Urbani, Protomartiri Francescani, Velar-ElleDiCi, Gorle 2009.

G. Cassio, Oltre Assisi. Con Francesco nella Terra dei Protomartiri attraverso l’Umbria Ternana, Velar-ElleDiCi, Gorle 2010.

Dai Protomartiri francescani a sant'Antonio di Padova. Atti della Giornata Internazionale di Studio (Terni, 11 giugno 2010) a cura di L. Bertazzo -  G. Cassio, Ed. Centro Studi Antoniani, Padova 2011.

San Francesco e il Sultano. Atti della Giornata di Studio (Firenze, 25 settembre 2010), in Studi Francescani 108/2 (2011), pp. 425-565.

G. Cassio, Chiesa Sant’Antonio di Terni. Santuario antoniano dei Protomartiri francescani, Velar-ElleDiCi, Gorle 2011.




[1] Cfr. San Francesco e il Sultano. Atti della Giornata di Studio (Firenze, 25 settembre 2010), in Studi Francescani 108/2 (2011), pp. 425-565.
[2] Cfr. ad esempio quanto scrive F. Cardini, Conclusioni, in Dai Protomartiri francescani a sant'Antonio di Padova. Atti della Giornata Internazionale di Studio (Terni, 11 giugno 2010) a cura di L. Bertazzo -  G. Cassio, Ed. Centro Studi Antoniani, Padova 2011, p. 203-213.
[3] Passio Sanctorum Martyrum fratrum Berardi, Petri, Adiuti, Accursii, Othonis in Marochio martyrizatorum, in Analecta Franciscana, III, Ad Claras Aquas, 1897, pp. 579-596; trad. italiana di p. Alberto Ghinato, La scimitara del Miramolino. Relazione medievale della passione dei primi martiri francescani in Marocco (1220), Edizioni Francescane (Via Merulana, 124) Roma 1962.
[4] C. Ferreo Hernández, Inter Saracenos. Mártires franciscanos en el Norte de África y en la Península Ibérica (ss. XIII-XVII), in Frate Francesco 77 (2011), pp. 261-277.
[5] Giovanni Paolo ii, Operosam diem. Lettera apostolica in occasione del xvi centenario della morte di sant'Ambrogio (1 dicembre 1996), in Insegnamenti di Giovanni Paolo ii, xix,2 (1996, luglio-dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 803-852.
[6] Giovanni Paolo ii, Operosam diem, p. 838.
[7] Cfr. Commissione teologica internazionale, Memoria e riconciliazione. La chiesa e le colpe del passato, in Enchiridion Vaticanum, 18, Editrici Dehoniane, Bologna 2002, nn. 2310-2406 in cui il paragrafo quarto è dedicato proprio allo studio della storia: «4. Giudizio storico e giudizio teologico».
[8] Pubblicato in P. Messa, Siamo costanti e non temiamo di morire per Cristo. La passione dei primi martiri francescani in Marocco, in La Marca francescana. Terra dei Fioretti V/2 (marzo-aprile 2012), pp. 37-38.
[9] Vita prima di sant’Antonio o Assidua (c. 1232), a cura di V. Gamboso (Fonti agiografiche antoniane, 1), Ed. Messaggero Padova, Padova 1995, pp. 287-293.
[10] Processo di canonizzazione di Chiara d’Assisi, VI,6, in Fonti Francescane. Nuova edizione, a cura di E. Caroli, Editrici Francescane, Padova 2004, n. 3029.
[11] Processo di canonizzazione di Chiara d’Assisi, VII,2, in Fonti Francescane. Nuova edizione, n. 3042.
[12] Francesco d’Assisi, Ammonizioni, VI, in Fonti Francescane. Nuova edizione, n. 155.
[13] Giordano da Giano, Cronaca, 7-8, in Fonti Francescane. Nuova edizione, n. 2329-2330.
[14] Egidio d’Assisi, I Detti, 25, traduz. di N. Vian, in I mistici francescani, secolo XIII, vol. I, Editrici Francescane, Bologna 1995, p. 135.
[15] Saint Bonaventure, Sermons de diversis, éd. J.-G. Bougerol, II, Paris 1993, p. 762.
[16] Sisto IV, Cum alias, in Bullarium Franciscanum, n.s. III (1471-1484), ed. J. Pou Y Marti, Ad Claras Aquas 1949, p.740; traduzione italiana di Fausto Dominici.

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