Una
leggenda tedesca di Santa Rosa
il libro di Anna Maria Valente Bacci
la cronaca dell'incontro di studio
Presentazione del libro di Anna Maria Valente Bacci, Una
leggenda tedesca di Santa Rosa (secolo XV). Codex sangallensis 589, Centro
Studi Santa Rosa da Viterbo, Studia I, 2013.
Un nutrito e variegato pubblico composto da religiose,
religiosi, studenti ed esperti del settore ha preso parte giovedì 17 gennaio
2013, presso la Pontificia Università Antonianum di Roma, alla presentazione
del libro Una leggenda tedesca di Santa Rosa (Secolo XV). Codex sangallensis
589 (Viterbo 2012), primo volume della collana Studia del Centro Studi Santa
Rosa da Viterbo - Onlus (www.centrostudisantarosa.org). L’incontro, organizzato
in collaborazione con l’Istituto Francescano di Spiritualità e con il Centro
Culturale Aracoeli, è stato moderato dal preside della Scuola Superiore di
Studi Medievali e Francescani, padre Pietro Messa, e ha visto l’intervento dei
professori Loredana Lazzeri e Marco Bartoli della Lumsa di Roma. Alla presenza
della curatrice, la docente di Filologia germanica Anna Maria Valente Bacci, i
due relatori hanno tracciato un quadro di sintesi della letteratura agiografica
tardomedievale, evidenziando le peculiarità di un’iniziativa editoriale, quella
promossa dal Centro Studi Santa Rosa da Viterbo, che permette di illustrare un
capitolo assai particolare e significativo della vicenda agiografica della
santa viterbese.
L’opera, infatti, propone l’edizione critica con testo a
fronte in latino e in italiano di una rara versione della legenda di santa Rosa,
che fu composta in dialetto alemanno, alla fine del Quattrocento, da e per le
terziarie regolari francescane della comunità sangallese di St. Leonhard. Si
tratta, allo stato attuale delle ricerche, di un testo unico nel panorama della
letteratura agiografica tardomedievale di area germanica, nel quale Rosa da Viterbo
viene fatta oggetto di una venerazione inconsueta per le regioni di lingua
tedesca, ricevendo dalla terziarie di San Gallo il titolo di «patrona e
protettrice di tutto il nostro ordine» e il riconoscimento di una posizione di
primazia analoga a quella che, nel ramo maschile del Terz’ordine, era
attribuita a Elzear di Sabran.
Come segnalato nella premessa del volume, «l’episodio di St.
Leonhard», unico caso ad oggi noto di una devozione per Rosa da Viterbo «in
lingua volgare» al di fuori dalla penisola italiana, testimonia dunque «l’assunzione
di Rosa nel pantheon del nuovo francescanesimo femminile osservante». Di qui
l’interesse per il codex sangallensis 589 e per il Compendio della vita della
santa vergine santa Rosa, che in esso viene tramandato insieme alle Deutsche
legenden di altri sei santi particolarmente venerati nell’area svizzero-tedesca
durante il XV secolo (si tratta di Chiara di Assisi, Bernardino da Siena, il
citato Elzear di Sabran, Ivo di Britannia, Pantaleone e il re Ludovico/Luigi di
Francia).
La prof.ssa Lazzeri, docente di filologia germanica presso
la Lumsa di Roma, ha rimarcato l’importanza dell’opera di pubblicazione delle
fonti sulla santa viterbese avviata dal Centro Studi Santa Rosa, segnalando
come l’edizione critica della leggenda del codex sangallensis 589 colmi una
significativa lacuna editoriale dopo la minimal edition di Patricia A.
Giangrosso, la quale oltre venticinque anni fa aveva pubblicato quattro delle
sette vite di santi contenute nel codice di San Gallo (cfr. Four Franciscan
saints’ lives: German texts from Codex Sangallensis 589, Stuttgart 1987; le
vite pubblicate sono quelle di Bernardino da Siena, Rosa da Viterbo, Elzear di
Sabran e Ivo di Britannia).
Lodevole sotto il profilo della descrizione codicologica e
paleografica, l’edizione della Giangrosso non si presenta invece
particolarmente accurata sotto il profilo filologico. Ciò ha motivato
l’esigenza, avvertita dalla curatrice, di una vera e propria edizione critica
di questo particolarissimo racconto agiografico della vita di Rosa da Viterbo,
collocabile secondo la Valente Bacci a metà strada «tra il genere della Heiligenpredigt,
‘predica sui santi’, e l’altro simile della legenda nova», il genere narrativo
più diffuso nel Medioevo che, com’è noto, trovò nella Legenda aurea di Iacopo
da Varazze la sua espressione più nota. Come ha ricordato la Lazzeri, le vite
dei santi potevano essere destinate all’uso liturgico, oppure alle lettura in
pubblico e in privato, tanto nelle chiese quanto nei monasteri: nel primo caso
il testo assumeva connotati di brevità e semplicità, favorevoli a una
compresione la più larga possibile, mentre i racconti agiografici composti per
finalità letterarie oltre che religiose presentavano, ordinariamente, una
struttura più articolata e complessa.
Il Compendio della vita di Rosa da Viterbo tramandato dal codex
sangallensis 589 si pone in una posizione intermedia tra questi due generi,
presentando inoltre caratteri di originalità anche in relazione alle sue fonti.
La prima parte dell’opera dipende dalla cosiddetta Vita secunda, una redazione
latina anonima risalente ai primi decenni del XV secolo. In essa si narrano la
nascita di Rosa, la manifestazione della sua santità sin dalla fanciullezza, la
grave malattia, le visioni di anime, l’apparizione della Madonna e di Gesù
Cristo crocifisso, la predicazione contro gli eretici, la condanna all’esilio,
la guarigione miracolosa di una cieca. La seconda parte del testo tedesco, che
narra alcuni episodi post mortem attribuiti all’intercessione di Rosa, appare
invece seguire una strada originale: accanto alla Vita secunda, infatti, si
nota la presenza di altre fonti non identificate, che non dipendono né dalla
citata Vita secunda, né dalla Vita prima, il frammento più antico sulla vita
della santa. Secondo la Lazzeri, l’individuazione di queste “fonti segrete”
della vita tedesca di Rosa da Viterbo potrebbe costituire una proficua pista di
ricerca in ambito filologico: l’edizione del testo del codex sangallensis 589 da
parte della Valente Bacci costituisce, in questa direzione, un incoraggiante
viatico.
Si è concentrato invece sugli aspetti più prettamente
storico-letterari dell’opera il professor Marco Bartoli, docente di storia
medievale presso la Lumsa di Roma ed esperto di storia del francescanesimo, con
particolare riferimento alle vicenda di Chiara di Assisi e al ramo femminile
dell’ordine. Nella sua relazione, Bartoli ha sottolineato come quella di Rosa
da Viterbo sia «una storia al femminile», non solo in quanto furono delle donne
a diffonderne il culto con la parola e con gli scritti, ma anche per il
contenuto stesso delle leggende agiografiche composte intorno alla santa
viterbese, compresa quella del codex sangallensis edita dalla Valente Bacci. Bartoli
ha notato inoltre come, secondo il sistema dei topoi tipico del genere
agiografico, anche la vita tedesca di Rosa presenti le caratteristiche di un
testo performativo, per dirla con Timothy Johnson: si tratta, infatti, di un racconto
adatto alla memorizzazione e alla lettura pubblica nelle occasioni liturgiche,
pensato per diventare «forma», modello di vita per i fedeli – religiosi ma non
solo – cui era indirizzato. Sono queste le ragioni che spiegano le affinità
della leggenda tedesca di Rosa da Viterbo con altre vite di santi il cui culto
era particolarmente diffuso nel medioevo, da Nicola ad Agnese, da Agata a
Chiara di Assisi.
La vicenda di Rosa da Viterbo narrata nel codex sangallensis
presenta tuttavia anche delle peculiarità proprie. Tale è, per esempio, quella
che Bartoli ha definito la «mediazione sacerdotale e linguistica» che lega
l’episodio della conversione della giovane Rosa grazie alle prediche di alcuni
frati minori della sua città, alla scelta del dono totale di se stessa a Cristo
e ai poveri adottata in seguito a una malattia e alle visioni di Cristo e della
vergine Maria (da segnalare come il racconto di quest’ultima visione risulti
molto vicino a quello di un analogo episodio riferito da una testimone nel
corso del processo di canonizzazione di Chiara d’Assisi). A detta dell’anonima autrice
della leggenda tedesca, proprio l’esperienza della malattia avrebbe conferito
alla pia donna viterbese il dono della profezia, secondo una dinamica coerente
con la concezione medievale che vedeva nei morenti una sorta di “ponte” tra il
mondo terreno e l’aldilà.
Al tema della profezia e della visione della Vergine si lega, inoltre,
quello assai delicato della «parola pubblica»: narra infatti la leggenda
agiografica che su suggerimento esplicito della Vergine, Rosa da Viterbo si
dedicò a un’intesa predicazione di carattere penitenziale, volta a ricondurre
alla fede i peccatori e a smascherare le ipocrisie degli eretici ariani. Si
tratta, caso non unico ma comunque significativo per l’epoca, della
predicazione di una donna laica, semplice, di cui veniva tuttavia tollerato il
ruolo pubblico in virtù del riconoscimento di una speciale rivelazione e
ispirazione divina. Particolarmente aspro è lo scontro – e si avvertono in
questa parte del racconto gli echi della contemporanea predicazione
antiereticale svolta in area tedesca dagli osservanti, Giovanni da Capestrano in
primis – che Rosa ingaggia con i catari. Animata da un desiderio di martirio
che la avvicina alle grandi figure femminili della tradizione agiografica, da
Umiliana de’ Cerchi a Chiara di Assisi, la pia donna di Viterbo si rende
inoltre protagonista di una decisa azione anti-ghibellina, guadagnandosi per
questo motivo l’espulsione dalla propria città. L’episodio dell’allontanamento
di Rosa da Viterbo ad opera del podestà e degli eretici non trova riscontro
nella documentazione storica, ma il suo inserimento nella vita tedesca del codex
sangallensis induce a ritenere, quantomeno, che esso venisse ritenuto verosimile
dall’autrice della leggenda e dal suo pubblico di riferimento, vale a dire le
terziare di San Leonhard, che proprio in quegli anni, a cavallo tra XV e XVI
secolo e poi nei decenni seguenti, si sarebbero trovate a difendere il proprio
monastero dagli attacchi dei protestanti. A questa resistenza, che durò fino
agli anni ’70 del Cinquecento, la figura proposta dal codex sangallensis di una
Rosa da Viterbo paladina della fede cattolica contro gli eretici e le ingerenze
ghibelline, potrebbe aver offerto una fonte di ispirazione ideale. Si tratterebbe,
secondo Bartoli che riprende qui una suggestione di Giovanni Miccoli, di uno di
quei casi in cui l’agiografia, esercitando il proprio influsso sulla mentalità
di una determinata comunità o gruppo sociale, avrebbe contribuito a fare la
storia. (Michele Camaioni)
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