Per comandare occorrono le ali
L’arte del governo e della guida secondo san
Bonaventura
di Inos Biffi
Santuario - La Verna |
Bonaventura è anzitutto persuaso
che è difficile trovare individui che non abbiano bisogno di maestro e di
guida; del resto, «vi è una grande differenza tra lo stare sottomessi
umilmente, il convivere pacificamente e il presiedere utilmente». Ecco perché
«conviene a pochi vivere senza il giogo dell’obbedienza»; è anzi necessario che
«quegli stessi che sono preposti agli altri, al fine di agire meglio e con
maggior cautela, siano, a loro volta, sottoposti ad altri, dai quali vengano
guidati, e questo fino al Sommo Pontefice, che è il capo di tutta la Chiesa
militante, in rappresentanza di Cristo».
Bonaventura definisce col nome di
«ali» le “virtù” che devono contrassegnare il superiore, attingendo
all’immagine del Crocifisso alato apparso a san Francesco, e sono: lo zelo per
la giustizia, la pietà, la pazienza, l’esemplarità della vita, l’oculata
discrezione, la devozione a Dio.
Ognuna di queste virtù viene
esaminata dal santo dottore con la finezza dottrinale del teologo e la
concretezza di chi conosce a fondo, si direbbe con un disincantato realismo, il
comportamento umano, che si ritrova nella Chiesa e nella stessa vita religiosa.
Prendiamo la dote della pietà: il
«vicario di Dio» — come egli definisce il superiore — deve possedere «la
compassione fraterna. Se nei confronti dei vizi si deve usare la verga di
ferro, nei riguardi dell’infermità occorre il bastone che sostiene. Verso i
deboli e i malati ci si deve mostrare sommamente umani. Il bravo prelato deve
riconoscersi un padre per i suoi fratelli, non un padrone, un medico, non un
tiranno, e non li deve considerare come propri giumenti o servi che si sono
comprati, ma figli, chiamati a condividere la stessa eredità». Per questo, «è
bene che i superiori sperimentino l’infermità degli altri, perché imparino ad
averne compassione». E, richiamando san Bernardo, Bonaventura conclude:
«Sappiate che dovete essere madri per i vostri sudditi, non padroni; fate in
modo di essere più amati che temuti e, se talora è necessaria la severità, essa
sia paterna, non tirannica».
Al superiore, inoltre, è
«massimamente necessaria la pazienza». Per esempio, quando constata che, di
coloro ai quali dedica continue fatiche, «sono pochi quanti fanno dei
progressi» e che «non c’è speranza per i frutti del suo lavoro». Talora poi
avverte che «quello che viene stabilito e comandato è eseguito e osservato con
negligenza»; oppure che serpeggiano dei disordini, come quando, con la scusa di
salvare tutti, si accoglie in convento un numero esorbitante di fratelli, per
cui «si offusca la povertà», «accrescono le discussioni sulla compera del
necessario», «si spegne la quiete della devozione», «degrada lo stile di vita
religiosa», «si intrecciano familiarità proibite, si chiedono doni ai
penitenti, si vendono le anime per il lucro, si adulano i ricchi, si allargano
le proprietà», per non dire dell’altro inconveniente: la «precipitosa
promozione dei giovani». Di fronte a queste e a molte altre cose «il superiore
spirituale, dal momento che giudica tutto secondo verità, si consuma e brucia,
e, non riuscendo a correggere come desidera, si esercita mirabilmente nella
virtù della pazienza».
La pazienza è poi necessaria «di
fronte all’ingratitudine di coloro per i quali fatica con tanta sollecitudine»:
e, infatti, «difficilmente arriva a soddisfarli e a evitare il loro continuo
lamento sempre che, se avesse voluto, avrebbe potuto fare diversamente e meglio
nei loro confronti». Per cui «spesso non sa che fare: se cedere alle loro
insistenze e accondiscendere a tutto quello che vogliono, o se invece mantenere
rigidamente quello che ritiene più conveniente».
Avviene anche — dice Bonaventura —
che «distorcono parecchie delle cose che il superiore fa», che «le interpretano
al peggio», ed ecco che «mormorano, accusano, denigrano e traggono motivo di
scandalo da ciò con cui egli credeva di aver reso ossequio a Dio e a loro».
Insomma, «a stento egli riesce a stabilire e a fare qualcosa, senza che si susciti
immancabilmente cruccio o agitazione»; e al riguardo «alcuni insorgono
apertamente contro di lui, altri lo disapprovano e lo disprezzano per iscritto
e incitano gli altri perché vi si oppongano, o impediscono furbamente che possa
attuare quello che dovrebbe».
Orbene, «a queste e ad altre
contrarietà, che in vario modo lo assalgono, il superiore deve sforzarsi di
reagire con lo scudo della pazienza», reprimendo nel rispondere «l’impeto
dell’eccitazione» e «non mostrando impazienza nella voce, nel volto e nel
comportamento»: «difficilmente si placa l’agitazione con l’agitazione; né si
risana il vizio col vizio». È vero invece che «l’impazienza del superiore lo
disonora agli occhi dei sudditi e degli altri, lo rende detestabile e temibile;
fa sì che i sudditi non osino manifestargli le loro necessità; riempie la casa
di brontolii e di rancore; mette in fuga i fragili di mente; rende
pusillanimi».
Il superiore deve, dunque, essere
un uomo di pace, che «non si vendica delle offese ricevute», «non porta rancore
nel cuore verso quanti lo hanno offeso, né li trascura, né cerca di
allontanarli da sé, anzi, se li tiene più vicini». «È compito proprio del
pastore insegnare le virtù», ma, si domanda Bonaventura, «se allontana da sé i
traviati, chi ammaestrerà? Se il medico fugge via dai malati, chi curerà?». E
ancora: «tanti vescovi e superiori si sono santificati sia compiendo il bene
sia sopportando le avversità nell’esercizio del loro ufficio». Senza dire che,
«attraverso le avversità, il superiore stesso viene ripulito dalla polvere dei
peccati, che surrettiziamente si insinua in lui a motivo dell’umana infermità»,
e in tal modo «viene preservato dal tumore della superbia, che più
pericolosamente insidia i potenti, quando l’altezza dell’ufficio, la libertà di
cui dispongono, la soddisfazione per le opere compiute, facilmente ne
inorgoglirebbero lo spirito, se il giogo dell’avversità non umiliasse il collo
della loro presunzione, preservandoli dalla voragine della superbia».
E non c’è da meravigliarsi «se non
tutti i tentativi del superiore hanno successo con tutti: la stessa opera di
Dio rivolta a tutti non riesce a salvare tutti. Non ogni cosa che si semina
germoglia».
Per Bonaventura «il superiore
dev’essere inoltre animato a sopportare la fatica dal fatto che il suo merito
non diminuisce nel caso in cui i suoi sudditi non progrediscono o progrediscono
poco». Un maestro infatti «fatica di più quando ha a che fare con un alunno
indocile, che non con un alunno disciplinato, ma il suo merito è maggiore agli
occhi di colui che sa stimare con giustizia il lavoro. In un terreno sterile e
sassoso il contadino sgobba di più, anche se il raccolto è più scarso; il suo
premio è quindi maggiore; quello poi che è più oneroso produrre è spesso
venduto a prezzo più caro».
L’Osservatore Romano, 15 luglio 2012, p. 5.
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