Vita della vergine Agnese di Praga
Scritta tra la fine del XIII secolo e i primi decenni del XIV,
probabilmente da un frate della comunità minoritica voluta dalla medesima
Agnese di Praga (1205-1282), la presente Vita in quanto agiografia offre una
lettura teologica della storia della clarissa boema. Di seguito sono
tralasciati i miracoli, pur importanti, narrati nel capitolo XIII che si
possono trovare, in J. Nemec, Agnese di Praga, Ed. Porziuncola, Assisi 1982.
Comincia il prologo della vita dell’inclita vergine suor Agnese
dell’ordine di Santa Chiara, di Praga, figlia del re di Boemia Premysl detto
Ottocar
Più di una volta sono stato spinto dalle richieste delle venerabili
vergini suore dell’ordine di Santa Chiara, di Praga, a scrivere la vita e gli
atti della nobilissima vergine suor Agnese, figlia dell’inclito re di Boemia,
Premysl, perché la sua straordinaria santità non rimanesse nascosta sotto un
dannoso silenzio. Il suo ricordo merita, infatti, di essere celebrato in eterno
con espressioni di lode, poiché la imperscrutabile sapienza divina la pose come
lucerna sul candelabro della Chiesa militante e dolcemente l’accese con la
fiamma della sua grazia, affinché ardesse vivamente in lei per i meriti della
sua vita ed illuminasse chiaramente gli altri con la luce del suo salutare
esempio. Da parte mia c’era tutta la buona volontà di assecondare questa logica
e pia richiesta nella speranza di un’eterna ricompensa, ma, dopo un’attenta
riflessione, non ritenendomi all’altezza di questo compito, trattenni dallo
scrivere l’indegna mia penna, preso dal timore di oscurare con un inadeguato
discorso quanto invece doveva essere esaltato con alte lodi. Finalmente,
costretto dall’ordine del reverendo padre superiore, al quale si deve
obbedienza, assunsi l’incarico che era al di sopra delle mie forze, preferendo
venir meno con umile obbedienza sotto il peso di così grande fatica, piuttosto
che andare ostinatamente contro la volontà del superiore, consapevole anche del
fatto che la mancata obbedienza è ritenuta un peccato come la superstizione o
un’iniquità come l’idolatria.
Così, per la nostra impossibilità di rivendicare qualche cosa come
proveniente da noi, in quanto ogni nostra capacità dipende da Dio, il quale
misericordioso produce in noi, per benevolenza, il volere e l’operare, riposi
in Lui l’intera fiducia concessami dal mio superiore. Intendo dunque scrivere
intorno a questa straordinaria vergine soltanto quelle notizie che ho potuto
ricevere da quelle persone che vivendo con lei videro direttamente la grandi
opere delle sue virtù e che, per i meriti della loro vita, difficilmente
potrebbero non essere credute. Illustrerò le grandezze che il Signore si degnò
di compiere in considerazione dei suoi meriti, non solo quando era in vita, ma
anche dopo la sua beata morte. Di queste alcune pervennero alla mia conoscenza
attraverso una visione personale, altre attraverso la testimonianza, accolta
con la garanzia di prove sicure, di coloro che ne furono beneficiati. Nella
narrazione ho disposto i fatti, per motivi di chiarezza, non sempre secondo
l’ordine cronologico, ma, per semplicità, quanto più succintamente e
convenientemente mi è stato possibile, ho riunito tutti i fatti che
riguardavano un determinato argomento, accaduti o no nello stesso tempo, non
solo per evitare motivo di fastidio a chi preferisce la brevità, ma anche per
infiammare con più ardore l’animo dei fedeli, spingendoli all’imitazione di
questa vergine illustre. Pertanto tutta la sua vita è contenuta in tredici
capitoli. Il primo ha come argomento la nascita e la giovinezza; il secondo
tratta della santa vita trascorsa, dopo la morte del padre, alla corte del
fratello; il terzo parla dell’entrata nell’Ordine di Santa Chiara; il quarto
della grande umiltà e obbedienza; il quinto della santa e autentica povertà; il
sesto delle gravi sofferenze da lei stessa imposte al suo corpo; il settimo
dell’amore per la preghiera e dell’ammirabile devozione al Sacramento
dell’Altare; l’ottavo illustra il ferventissimo amore per la croce di Cristo;
il nono l’abbondante carità verso le suore e gli afflitti; il decimo ha per
oggetto le rivelazioni che Dio le ha concesso; l’undicesimo la morte e gli
avvenimenti ad essa legati; il dodicesimo la sepoltura; il tredicesimo, infine,
espone i miracoli compiuti per intercessione divina.
I. Comincia la vita della nobilissima vergine suor Agnese dell’ordine
di S. Chiara, di Praga: la nascita e la giovinezza
Splendore di luce eterna, specchio puro delle divina maestà e immagine
della bontà dell’eterno Padre, il Signore Gesù Cristo, la cui misericordia è
superiore a tutti gli altri suoi attributi, mentre il mondo volgeva ormai alla
fine, ricordandosi della sua ridondante misericordia, dall’alta sede del cielo
ha volto lo sguardo benevolo sui figli degli uomini che giacevano nelle tenebre
e nell’ombra di morte. Così, per mostrare nei secoli futuri le abbondanti
ricchezze della sua grazia e della sua bontà, ha fatto risplendere, traendola
dalla massa umana, quasi dalle tenebre, una luce di mirabile santità; come
lucifero a suo tempo, ha fatto nascere in quest’ultima epoca la beatissima
Agnese, come stella della sera sopra i figli mortali, perché con l’aiuto della
sua fulgida compagnia, simile al fulgore di un astro luminoso, l’umanità, che
errava nelle tenebre, volgesse i passi dei propri sentimenti in una via di
pace. Di inclita stirpe, in quanto nata da genitori entrambi discendenti da
famiglia regale, figlia di Premysl detto Ottocar, famoso re dei Boemi e di
Costanza, sorella di Andrea re d’Ungheria e padre di santa Elisabetta, ornò
ancor di più con stupenda grazia e purezza di vita la sua nobile origine. Sua
madre, quando ancora la portava in grembo, ebbe un sogno, chiaro presagio di
quanto doveva accadere. Le era sembrato di entrare nella stanza in cui venivano
conservate le sue numerose e preziose vesti regali, e mentre stava volgendo lo
sguardo su di esse, vide pendere in mezzo a loro una tunica e un mantello di
colore bigio ed una corda della quale si cingono le suore dell’ordine di Santa
Chiara. Rimase alquanto stupefatta e, mentre per la mente andava chiedendosi
chi mai avesse posto una veste così rozza e per niente lavorata in mezzo alle
altre di grande valore, udì una voce che così le diceva: “Non stupirti! La
prole che tu porti in grembo un giorno indosserà questa veste e sarà luce di tutto
il regno di Boemia”.
Dio, che conosce il futuro e che vuole rendere noti gli avvenimenti
prima ancora che essi si compiano, subito dopo la nascita della piccola Agnese
fece risaltare, per mirabile ispirazione, l’immagine della sua futura santità
attraverso segni corporali.
La nutrice, infatti, trovava spesso Agnese nella culla con le mani e i
piedi incrociati. Con tale posizione stava ad indicare che colui il quale
sopportò per noi le sofferenze della croce, desiderava dimorare per sempre nel
suo petto come una borsetta di mirra, per custodire in eterno la sua fiorente
verginità.
Quando Agnese compì tre anni, i genitori, desiderosi di darla in sposa
degnamente secondo la nobiltà della stirpe, la promisero ad un duca della
Polonia. Condotta pertanto in quella terra insieme alla nutrice e ad un
onorevole seguito, fu accolta con tutti gli onori nel monastero chiamato
Trebnycz. Qui apprese innanzitutto con animo docile, direttamente dalla figlia
di santa Edvige, i principi dell’educazione della fede. Qui, sebbene
piccolissima, non compì nulla di puerile, ma addirittura quando le suore del
monastero entravano nel coro per rimanervi a recitare l’ufficio divino, ella
rimaneva inginocchiata davanti all’immagine di Cristo e della Vergine gloriosa
recitando continuamente il Padre Nostro e l’Ave Maria, che offriva con
devozione a Cristo e alla sua Vergine Madre, esortando con frequenti inviti le
compagne a fare altrettanto.
Per volere della divina Provvidenza, che per lei aveva disposto
qualcosa di meglio, in seguito alla morte del duca al quale era stata promessa
sposa, Agnese, all’età dei sei anni, ritornò alla reggia del padre. Questi
l’affidò amorevolmente alle suore del Signore nel monastero di Doksany nel
regno di Boemia, perché ricevesse una più approfondita educazione morale e
perché imparasse a leggere e scrivere. Per l’intero anno in cui restò con
profitto in questa sede, l’insegnante spirituale, lo Spirito Santo, che non ha
bisogno del tempo per insegnare, con l’abbondante unguento della sua
misericordia unse il cuore di Agnese e le elargì insegnamenti tali che quanto
agli altri era dato dalla lezione giornaliera, a lei veniva impartito
direttamente da lui. Così, in possesso di qualità spirituali superiori a quelle
che normalmente si hanno alla sua età, Agnese evitava l’immoderatezza delle
altre fanciulle e gli svaghi, traendo diletto soltanto dal luogo della santa
preghiera, cioè dalla chiesa. All’età di otto anni la nobile discepola di
Cristo venne ricondotta presso il padre. Qui, in virtù della sua equilibrata
assennatezza mostrata nel modo di agire, veniva onorata con carissimo affetto
non solo dai genitori, ma anche da tutti quelli che si rivolgevano a lei.
Trascorso un po’ di tempo venne finalmente richiesta in sposa dal figlio
dell’imperatore Federico, il quale aveva mandato a tale scopo, i propri
intermediari. I genitori accondiscesero alla richiesta mediante l’impegno dato
agli stessi ambasciatori.
Non va taciuto ciò che accadde a proposito di questo fidanzamento. Nel
preciso istante in cui si sanciva l’accordo, infatti, nessuno dei presenti fu
in grado di ricordare il nome assai noto della celebre fanciulla, per cui da
questo indizio appariva chiaramente che Agnese si sarebbe dovuta congiungere
con vincolo eterno non ad un uomo mortale, ma all’Agnello senza macchia, nel
cui libro il nome della fanciulla era invece scritto a chiare ed
indimenticabili lettere. Ratificata infine la promessa di matrimonio, secondo
quanto era stato disposto dall’imperatore, Agnese venne inviata dal padre con
un seguito di regale magnificenza in Austria da dove, trascorso un po’ di tempo
il duca di quella terra l’avrebbe dovuta consegnare in sposa al figlio
dell’imperatore Federico. Alla corte del duca di Austria Agnese non desiderò
affatto la carne, ma durante l’intero periodo dell’Avvento, quando tutti i
componenti della famiglia ducale secondo il loro costume mangiavano carne, lei
solo invece digiunava vivendo di solo pane e di solo vino. Durante poi la
quaresima, osservata con abitudini comuni a quelle di Agnese, anche dai familiari
del duca, mentre i figli di questi facevano uso di latticini, Agnese invece si
accontentava del solo pane e del solo vino. Poiché non voleva rendere noto il
proprio digiuno, passò tutta la quaresima digiunando con tanta riservatezza
che, all’infuori della nutrice e di qualche altra persona di fiducia,
difficilmente altre persone poterono accorgersene. Pertanto, ormai ardentemente
desiderosa di procurare al corpo le sofferenze di Gesù Cristo, tormentava la
sua tenera carne tenendone a freno la concupiscenza con la cinghia della
parsimonia, perché vivendo nella mollezza non fosse ritenuta morta di fronte a
Dio. Dedita sempre all’elemosina e alla preghiera, raccomandava se stessa e la
sua pudicizia all’immacolata madre di Cristo, che aveva scelto come patrona e
con devozione chiedeva di poter diventare una degna imitatrice e compagna della
sua virginea purezza. Di conseguenza, durante tutta la vita, venerò con
vivissimo fervore religioso soprattutto la festività dell’Annunciazione,
meditando con devoto rispetto sul mistero secondo il quale una casta fanciulla
terrena, resa fertile dalla rugiada dello Spirito Santo, concepì e diede alla
luce il Salvatore e, conservando il privilegio della verginità, è la sola degna
di essere chiamata vergine e madre.
Per mirabile volontà di Dio, che disapprova i disegni dei potenti,
Agnese in seguito al mancato fidanzamento, all’età di quattordici anni fu
ricondotta di nuovo nella terra natia. Ed ecco che, non molto tempo dopo, si
presentarono ai genitori di lei i messaggeri dell’imperatore e del re
d’Inghilterra, i quali, a gara, chiedevano la mano della fanciulla per il
proprio signore. Nel tempo in cui essi si trattennero a corte, un soldato, che
accompagnava l’ambasceria dell’imperatore, ebbe una visione del tutto degna di
credibilità, che ritengo opportuno narrare. Vide in sogno una corona di
straordinaria grandezza scendere sopra il capo della giovane, la quale se la
tolse e pose al posto di quella un’altra incomparabilmente migliore. Quando al
mattino il soldato si svegliò, ritornò con la mente alla visione avuta durante
il sonno e la raccontò ad altri. Come un uomo naturale, che vive privo di
intelligenza nello Spirito, interpretò nel senso che proprio la sua ambasceria
avrebbe raggiunto lo scopo desiderato: riteneva infatti che Agnese, rifiutato
il re degli Inglesi, avrebbe scelto come sposo quello che aveva più alta
autorità, cioè l’imperatore. In realtà, però, la grandezza di Dio, che svela in
cielo i misteri, con questo sogno volle spiegare che Agnese, destinata a diventare
fra poco sposa di Cristo, doveva essere per sempre incoronata da lui non con
una corona legata ad un regno effimero, ma con l’incorruttibile corona della
gloria.
II. La santa vita condotta dopo la morte del padre alla corte del
fratello
Alla morte del padre, il famoso re Ottocar, Agnese rimase presso il
fratello, l’inclito Vencesláo, successo al padre nel governo del regno, e
crescendo in età cresceva ancor più nella fede, passando di virtù in virtù. Si
destava all’alba, si vestiva e con le persone più intime prendeva parte
devotamente alla visita delle numerose chiese di Praga; visitava anche le suore
dei monasteri adiacenti, affidando vivamente se stessa alle loro preghiere.
Spesso tornava affaticata ed i suoi piedi, a causa del pungente gelo, furono
visti sanguinati. In tal modo, cercando di pervenire alla vita eterna
attraverso la via stretta, sceglieva le vie piene di asprezze. Quando il giorno
finalmente splendeva più luminoso, si dirigeva verso la cappella regia o verso
la cattedrale accompagnata da un nobile seguito e, senza soffermarsi in inutili
discorsi materiali, era intenta a trattare argomenti di natura divina. Entrata
in chiesa o nella cappella vi rimaneva ad ascoltare con devozione quante più
Messe poteva e, rivolgendo al Signore con il dovuto raccoglimento le orazioni
che si recitano nelle vigilie dei defunti, non distoglieva l’instancabile mente
dalla preghiera.
Osservando il continuo cambiamento del nostro mondo era giunta a
disprezzare la fugace gloria terrena e, per sfuggire di proposito il fascino
dello sfarzo mondano, portava nascosto il cilicio sotto le vesti intessute
d’oro, come convenivano alla figlia di un re. Ugualmente evitava la sua
stanzetta abbellita con splendidi apparati e dormiva, accanto al raffinato
letto, sopra un pungente e umile strato di paglia. Questo fu il nobile contegno
durante la permanenza presso il fratello, questo lo slancio verso le cose
celesti, questo il disprezzo di quelle terrene. Ma una sì fulgida luce non
poteva stare nascosta sotto il moggio, per cui la fama delle sue virtù e del
suo nome, a somiglianza di una macchia d’olio si diffuse tutt’intorno e,
passando da regione in regione, giunse fino all’imperatore. Questi, come in
precedenza aveva fatto con il padre di Agnese, inviò al fratello di lei
ambasciatori con molte promesse, pregandolo di non negargli in sposa la
sorella. Ma, quando il fratello dette il proprio consenso, la vergine di
Cristo, protesa alla ricerca di cose accette al Signore, come la santità del
corpo e dello spirito, intenta quindi a seguire l’Agnello assieme alla schiera
pura delle vergini, decise di non andare sposa a nessuno dei mortali di
qualsiasi rango o dignità. Per conferire un vincolo di maggior fermezza alla
sua decisione, prendendo una decisione risolutiva confessò il suo intimo
proposito al nobile vicario di Cristo papa Gregorio IX, per mezzo di
ambasciatori e di uomini di fiducia. Il santo pontefice si rallegrò della
devozione della nobile vergine e servendosi degli stessi ambasciatori la
fortificò nel Signore, scrivendole paterne lettere, per apprezzare e allo
stesso tempo rafforzare il suo santo proposito. La adottò come figlia e si fece
presente mediante molti doni spirituali, seguendola ogni giorno con l’affetto
di un padre benevolo. L’ancella di Cristo, con lo spirito colmo di grande
conforto ricevuto dalla risposta del sommo pontefice, corse subito a confessare
con estrema franchezza il suo proposito al fratello. Questi apprese la notizia
rimanendone profondamente turbato. Per scusarsi poi debitamente di fronte all’imperatore,
e per rendergli manifesto il proposito della sorella, gli inviò un’ambasceria.
Si tramanda che ad essa l’imperatore abbia risposto con queste parole: “Se una
simile ingiuria fosse stata a noi arrecata da un qualsiasi altro uomo, non
cesseremmo mai di vendicare l’oltraggio di un così disonorevole disprezzo. Ma
dal momento che Agnese preferì a noi un più nobile sovrano, non considereremo
mai questa scelta come un affronto, ma l’accetteremo come volontà di Dio”.
Esaltò inoltre il santo proposito della vergine con sentiti elogi e le inviò
preziosi doni assieme a molte reliquie, incoraggiandola vivamente con lettere a
portare felicemente a compimento quello che in modo salutare aveva intrapreso.
III. L’entrata nell’ordine di Santa Chiara
Agnese, desiderosa di portare a compimento il suo tanto vagheggiato
proposito, chiamò a sé alcuni frati Minori ai quali, più che ad altri
religiosi, per ispirazione divina, si sentiva affettivamente vicina. Voleva,
infatti, essere informata sulla regola seguita dall’Ordine di Santa Chiara, la
quale viveva in clausura con altre sante vergini nei dintorni di Assisi, nella
chiesa di San Damiano e, come incenso che arde e spande il suo profumo nelle
giornate estive, inondava col profumo delle sue virtù ogni parte del mondo. Non
appena apprese dai frati che la regola di santa Chiara obbligava chi voleva
entrare nel suo Ordine a vendere ogni cosa e donarla ai poveri secondo
l’insegnamento evangelico, per servire nella povertà e nell’umiltà il Cristo
povero, Agnese si sentì invasa da una celestiale contentezza ed esclamò:
“Questo è proprio quello che desidero e che bramo ardentemente con tutto il
cuore!”. Subito fece vendere oltre all’oro e all’argento anche oggetti preziosi
ed i vari ornamenti e fece distribuire il ricavato ai poveri, bramando che le
sue ricchezze venissero dalle loro mani trasferite nei forzieri celesti. Fece
poi costruire, ad imitazione di quanto aveva fatto la cugina Elisabetta, vicino
al ponte di Praga, un grande ospizio per gli infermi, in onore del beatissimo
confessore Francesco e lo rese ancor più munifico con rendite e beni. Lo affidò
ai Crocigeri con croce e stella rossa, perché avessero cura degli infermi e
soccorressero tutti con sollecitudine elargendo a ciascuno secondo i propri
bisogni. In onore del glorioso san Francesco fece erigere a proprie spese anche
un monastero per i frati Minori e, in onore del Salvatore del mondo, un celebre
monastero per le suore dell’Ordine di Santa Chiara. Lo abbellì, in quanto amava
il decoro della casa di Dio, in modo meraviglioso con gloriose reliquie di
santi, con vasi ed ornamenti preziosi adatti al culto divino.
Quando giunsero da Trento cinque suore dell’Ordine di Santa Chiara,
richieste da Agnese ed a lei concesse dietro approvazione della santa Sede
Apostolica, esse furono accolte con grande gioia di spirito e furono
introdotte, con gli onori dovuti, nel cenobio a loro destinato. In occasione
della vicina festa di San Martino, sette vergini del regno di Boemia, tutte di
origine molto elevata, desiderose di legarsi per sempre con i lacci della
castità allo sposo delle vergini, si aggiunsero alle prime cinque e indossarono
lo stesso abito e presero parte alla stessa mensa. Finalmente anche la saggia
Agnese, constatando che nella tempesta della vita di continuo siamo travolti
dai flutti della nostra condizione mortale e non possiamo volgere il pensiero
alle cose celesti a causa dei mondani tumulti, infiammata più ardentemente
dall’amore delle cose divine, in occasione della vicina festa di Pentecoste,
alla presenza di sette vescovi, del fratello, della regina, di molti duchi e
baroni e di un’eccezionale moltitudine di uomini e di donne di varie nazioni,
rinunciò ad ogni onore regale ed a ogni gloria terrena e, assieme ad altre
sette vergini di altissima nobiltà, appartenenti al regno di Boemia, come
innocente colomba dal diluvio miserabile del mondo convolò verso l’arca della
sacra regola. Nel monastero, tagliati i capelli e deposte le vesti regali,
vestì abiti di penitenza e di lutto, come un’altra Ester, per farsi smile alla
madre Chiara nell’umile veste e nell’aspetto esteriore. Si allontanò così,
fuggendo lontana, dalla pericolosa tempesta di questo mondo e con animo
tranquillo calò l’ancora dell’amore verso questa solitaria vita religiosa per
pregustare in essa col palato dello spirito la stabilità della purezza e della
pace eterna, conservando la soavità dell’eterna dolcezza. Rinchiusa fino alla
morte in questo angolo di povertà, tutta dedita all’amore di Cristo povero e
crocifisso e della sua dolcissima Madre, come mirra scelta diffuse la fragranza
della sua spirituale santità. Sulle sue orme, infatti molti cominciarono a
costruire monasteri in diverse località della Polonia, moltissime vergini e
vedove cominciarono ad affluire nell’Ordine e a condurre una vita celestiale
combattendo contro le passioni della carne, pur essendo creature fatte di
carne.
IV. La sua grandissima umiltà ed obbedienza
Poiché all’edifico dello spirito è indispensabile, come fondamento
stabile e sicuro delle altre virtù, l’umiltà, che l’esempio di ogni perfezione,
il Signore nostro Gesù Cristo, insegnò con le parole e con le opere, Agnese,
vera ed umile discepola ai suoi occhi, metteva in luce di sé sempre le cose
umilianti ritenendo tutti migliori in questa virtù. In conseguenza di ciò, per
tutta la vita non volle mai stare alla guida del suo Ordine, ma preferì
ubbidire in tutta umiltà piuttosto che comandare sulle altre suore. Come la più
piccola e la più umile delle serve di Cristo, volle servire piuttosto che essere
servita, ad imitazione del sommo Maestro.
Pur essendo nata da stirpe regale non aveva in orrore il dover
accendere la stufa e il dover cucinare per tutto il monastero, ma preparava
molto devotamente con le sue purissime mani vivande particolari che inviava
agli infermi ed ai frati deboli, piena di sollecitudine come Marta, ansiosa di
servire Cristo, tutta indaffarata nel ristorarlo attraverso i poveri. Lavava
anche le scodelle e gli altri arnesi da cucina con grande gioia nel cuore;
ripuliva di nascosto le stanze delle suore e le parti sporche del monastero,
facendosi il rifiuto di tutti per amore di Cristo. Dimentica della signorilità
che le veniva dalla nobile nascita, per eccesso di mirabile unità, si faceva
portare con caritatevole riservatezza i panni delle suore inferme e dei
lebbrosi, ripugnanti per il fetore e per la sporcizia, che poi lavava con le
sue delicate mani. In seguito alle frequenti lavature, a causa della forza
corrosiva della lisciva e del sapone, aveva spesso le mani ricoperte di ferite.
Oltre a ciò rammendava nel silenzio della notte le loro vesti ridotte a pezzi,
non volendo avere nessun altro osservatore all’infuori di Dio, dal quale
unicamente aspettava la ricompensa per le pie fatiche. Pertanto, come una
piccola gemma di rubino incastonata in un gioiello d’oro, la generosità
dell’illustre vergine, rifulgendo con il fascino dell’umiltà, la rese
meritevole dell’amore di Dio ed oggetto di imitazione da parte delle consorelle
e la fece progredire nel cammino verso il possesso di più abbondanti grazie
divine, con l’aiuto di chi esalta gli umili. E fu così che la fama della sua
mirabile santità arrivò alle orecchie della santissima Chiara, la quale,
rallegrandosi al pensiero che la figlia di un re era stata fecondata dalla
grazia divina, magnificò l’Altissimo. Incoraggiò poi Agnese con animo materno,
deferente e profondamente affettuoso, inviandole frequenti e amorevoli lettere,
e la fortificò premurosamente nel suo proposito. Le inviò anche la sua regola
approvata dal pontefice Innocenzo IV, di beata memoria, come pegno di
osservarla nel futuro. Agnese la lesse con devozione ed ottenne che quella
fosse confermata nuovamente, per sempre, dal pontefice Alessandro IV, di beata
memoria, per sé e le sue suore del suo convento. Assoggettò se stessa alla
professione di questa regola con l’esercizio continuo dell’obbedienza che è
superiore delle vittime e, quasi vittima, offrì in ogni istante la propria vita
come olocausto di pace. Con tutto lo slancio dello spirito si volse
all’osservanza della regola non tralasciando una i o un puntino delle sue
norme, per correre per la via dei comandamenti di Dio, senza mai offenderlo
minimamente. Obbedì per tutta la vita ai superiori con grande umiltà e
rispetto, giudicando leggerissimo e addirittura soave il giogo della santa
obbedienza ed il peso della rigorosissima regola per amore del Signore.
V. La sua santa ed autentica povertà
La venerabile ed altissima povertà, con la quale gli umili in spirito
acquistano il regno dei cieli, era legata alla sua anima con vincolo talmente
stretto, che, nella labilità e caducità dei beni terreni, Agnese non volle mai
possedere niente e niente volle possedere nella terra dei morenti, perché il
Signore fosse la parte e l’eredità che a lei sarebbe aspettata nella terra dei vivi.
Di conseguenza, allorché il cardinale Giovanni Gaetano della Sede Apostolica,
al tempo del concilio di Lione celebrato da Gregorio X, cercò di persuaderla
con alcune lettere a procurare per sé e per le sue consorelle qualche bene
materiale in vista dell’incalzare di giorni particolarmente brutti e
pericolosi, Agnese manifestò con fermezza la propria disapprovazione,
aggiungendo che preferiva morire nella più squallida miseria piuttosto che
allontanarsi di un sol passo dalla povertà di Cristo, che si è fatto povero per
noi. Anche quando il re suo fratello ed altri principi le inviavano abbondanti
elemosine, ella, per procurarsi amici con le ricchezze, che sono occasione
d’iniquità, destinava parte di quelle all’opera di abbellimento dei reliquiari
e degli addobbi della chiese, acquistati sempre con grande cura, una seconda
parte riservava per venire incontro alle necessità delle suore, una terza,
infine, faceva distribuire segretamente alle vedove, agli orfani, ai lebbrosi
ed a altri poveri, poiché in tal modo, dopo aver deposto il peso delle cose
materiali, come un cammello che si toglie di dosso la propria gobba, potesse
entrare più facilmente, attraverso la stretta porta della povertà, nell’eterno
tabernacolo, a godere delle sconfinate ricchezze del cielo.
Trascorso un lungo periodo di anni, in seguito alla morte di re
Premysl, soprannominato Ottocar, il quale teneva in grande onore Agnese
amandola con tutta sincerità non tanto come una prozia, ma come una madre,
piacque a Dio – la quale qualche volta lascia che i suoi eletti vengano in
questa vita terrena a trovarsi in miseria, perché attraverso questo santo
commercio acquistino beni celesti ed eterni al posto di quelli terreni e
perituri – che una tremenda miseria colpisse anche Agnese e le sue consorelle,
a tal punto che a stento potevano disporre di cibo e pani. Agnese, tuttavia la
sopportò con la massima pazienza. Una domenica, infatti, la sesta da quando era
sopraggiunta la suddetta indigenza, mentre Agnese sedeva a mensa fu vista
alquanto indebolita. Le suore cercarono quindi di rinvigorirla porgendole
alcuni piccoli pesci, ma, poiché non riuscirono nel loro intento, furono prese
da forte mestizia. Agnese, accortasi di questo loro scoraggiamento, tese le
palme al cielo, sorrise e, lodando il Signore onnipotente per una così grande
miseria, si rivolse alle suore con queste parole: “Lodate, figlie, il Signore,
perché viviamo in povertà; se, infatti, la osserveremo come si deve, il Signore
non ci abbandonerà nel tempo della sventura”. Ed ecco che il Dio d’ogni
consolazione, esaudì il desiderio delle povere suore e venne in soccorso della
loro terribile miseria con un degno prodigio. La suora portinaia, recatasi per
assolvere ad alcuni compiti alla ruota, attraverso la quale le suore sono
solite ricevere i mezzi di sostentamento, trovò in essa dei pesci chiamati
ghiozzi, che poi la serva di Cristo mangiò volentieri, preparati secondo il suo
gradimento. Appena li vide, nel momento in cui fece girare la ruota, chiese chi
li avesse portati e a chi dovessero essere consegnati, ma non ebbe alcuna
risposta. Corse allora con grande gioia a portarli alla serva di Cristo e
raccontò in che modo li aveva avuti. Agnese, rendendo grazie al generoso
largitore di tutti i beni più per la pietà divina, dalla quale le suore venivano
rafforzate nel voto della povertà, che per il sollievo recato al suo corpo,
gioì in Cristo suo Signore Salvatore. Un’altra volta, in uno di quei giorni in
cui una tremenda fame oppresse il regno di Boemia, nel monastero delle suore,
dopo che furono portati a termine i sacri uffici ed era ormai giunta l’ora del
pranzo, non si trovava un sol pane per poter scongiurare il pericolo della
fame. Non appena la suora addetta alla dispensa se ne accorse, fiduciosa nel
Signore si affidò alla preghiera chiedendo appunto al Signore misericordioso,
che con larga mano sazia benigno ogni vivente, di elargire alimento anche alle
sue serve in tempo opportuno. Frattanto la portinaia si diresse alla ruota per
rintracciare qualche frate che andasse in cerca di un po’ di pane per le suore,
perché ciascuna potesse ricevere almeno quel pezzettino sufficiente a lenire il
male della carestia. Avvicinatisi alla ruota, la vide piena di bianchissimi
pani. Chi li abbia portati e deposti lì lo sa solo l’Onnisciente. È da credere,
in verità, che per merito di Agnese i pani furono depositati nella ruota,
destinati alle vergini rinchiuse di Cristo, che con la sua straordinaria
potenza permise ad Abacuc di portare il cibo a Daniele rinchiuso nella fossa
dei leoni e che, con indicibile provvidenza, non lascia mai privi di cibo gli
animali della terra e del cielo.
VI. Le gravi sofferenze che imponeva al suo corpo
Con quale rigorosa disciplina Agnese castigò il proprio corpo quando
ancora indossava gli abiti mondani appare abbastanza chiaramente da alcuni
particolari già raccontati. Quando poi raggiunse l’alto grado di perfezione
richiesto dalla regola, per conseguire la palma della lotta spirituale,
anzitutto assoggettò il nemico più vicino, la gola, con un gravoso digiuno.
Tutto questo per soffocare con forza le passioni della carne che lottano contro
l’anima e per soggiogare alla legge dello spirito quella che mai si dà per
vinta. Durante i numerosi anni di clausura non si cibò mai di legumi, ma solo
di cipolla cruda. Di tanto in tanto mangiava qualche frutto, preoccupata non di
nutrire il ventre con un cibo piacevole, ma piuttosto di alimentare lo spirito
con il nutrimento della grazia divina. Anche durante il tempo di penitenza,
nella quaresima tradizionale ed in quella di san Martino, nella quarta e sesta
feria e nelle vigilie dei santi dell’anno, digiunava vivendo di solo pane e
acqua, per rendersi meritevole, con l’intercessione dei santi, di raggiungere
il loro glorioso consesso. Ma oltre a trascurare l’esile corpo fiaccato dal digiuno,
lo tormentava ulteriormente procurandogli altre sofferenze e sottoponendolo a
gravi supplizi. Portava il cilicio, fatto di peli di cavallo fra loro annodati,
che per di più teneva strettamente aderente alla carne per mezzo di una corda
fatta anch’essa di simili peli. In aggiunta flagellava abitualmente con durezza
le delicate e deboli membra con una disciplina di cuoio piena di nodi.
Non già con la veste intessuta d’oro come una regina si mise in mostra,
non restò avvolta di mollezze come quando viveva nella reggia paterna, sebbene
anche allora avesse a disprezzo ogni forma di mondanità, ma come la più povera
fra le serve di Cristo si accontentò di un indumento privo di valore, che
doveva servire non da ornamento del corpo, ma da semplice e pudica copertura.
In tal modo fece sì che tutta la gloria alla figlia del re fosse interiore
nella purezza della coscienza e nella splendida varietà di più abbondanti
virtù. Frattanto, in seguito all’eccessivo rigore a lungo protratto, la
bellezza del volto svanì, la floridezza del corpo appassì, gli occhi si
offuscarono per le lacrime e le ossa, non più ricoperte di carne, aderirono
strettamente alla pelle. Per questa strada cercava di seguire le orme della
passione del Signore, e sopportava con animo gioioso le varie sofferenze,
animata sempre dall’ardente desiderio di conseguire attraverso le asprezze
temporanee il premio dell’eterno conforto.
VII. L’amore per la preghiera e la straordinaria devozione al
sacramento dell’altare
La fiamma dell’amore divino, che ardeva continuamente nell’altare del
cuore di Agnese, la spingeva tanto in alto, per mezzo della inesauribile fede,
da farle ininterrottamente ricercare il suo Diletto. Separata da Lui per mezzo
del muro della mortalità, bramava di congiungersi a lui con lo spirito. Quando
si recava nel suo oratorio privato, dopo aver chiuso la porticina, vi rimaneva
quasi senza interruzione da sola, tranne in quelle ore in cui la sua presenza
si rendeva necessaria in mezzo alle altre suore del monastero. Lì, infiammata
dall’amore di Dio, veniva portata in estasi sulle ali della contemplazione , lì
bagnava con abbondanti lacrime il letto della sua coscienza; lì, immersa in
continua preghiera, intrecciava un dolce ed intimo colloquio con il suo
Diletto. Qualche volta, infatti, le suore, mentre aspettavano che ella uscisse
dall’oratorio perché avevano bisogno di lei, la sentivano parlare con il
Signore e udivano anche una voce di uomo, molto soave, che le rispondeva.
Quando poi usciva dall’oratorio il suo volto splendeva così intensamente che a
stento lo si poteva guardare. Il raggio della luce eterna, che aveva inondato
con lo splendore celeste la mente di lei intenta a contemplarlo, faceva infatti
diventare splendente la sua carne con mirabili riflessi.
Un venerdì giunse al monastero un nobiluomo inviato ad Agnese da parte
del re. Allora una suora, di nome Benigna, che l’accudiva, subito corse
velocemente verso il luogo in cui Agnese pregava per invitarla a venire presso
l’inviato del re. Appena entrò silenziosamente nell’oratorio, vide Agnese tutta
avvolta da straordinaria luminosità come se fosse ricoperta da una nube
luminosa, per cui non poté affatto vedere il suo volto, ma vide soltanto
vagamente l’immagine del corpo immerso in quella stessa luce. Tutta frastornata
da quella visione, uscì in silenzio e riferì al messaggero del re che essa non
aveva osato distogliere Agnese immersa nella preghiera.
Un’altra volta, nel giorno dell’Ascensione del Signore, mentre recitava
le ore canoniche con due suore, Benigna e Petrusca, nell’orto che era dietro il
coro delle suore, all’improvviso scomparve dalla loro vista. Circa un’ora dopo,
sempre improvvisamente, riapparve nello stesso luogo alle due suore, le quali,
colte da stupore, non avevano osato scambiarsi nemmeno una parola. Alle due consorelle
che le chiesero ove mai fosse stata, ella sorrise dolcemente senza tuttavia
dare alcuna risposta. È da credere in verità che, avendo Agnese disposto in
cuor suo ascensioni fatte con i gradini delle virtù, ed essendo salita
spiritualmente assieme a Cristo che ascendeva in cielo, venne trasportata in
alto dalla potenza divina anche fisicamente. Nel periodo di quaresima,
richiamando spesso alla mente i misteri dell’umana redenzione, andava in estasi
e per questo suo quasi continuo anelare alle cose celesti, trascorreva in terra
una vita più angelica che umana. Le tantissime volte in cui terminata la
preghiera tornava in mezzo alle suore, non pronunciava mai parole oziose o
vane, ma con ardenti e soavi discorsi intessuti di argomenti celesti edificava
l’animo di chi l’ascoltava, riuscendo a stento a trattenere lacrime e sospiri
tutte le volte che pronunciava, leggeva o ascoltava qualche espressione
riguardante il Signore. Ma l’antico nemico, il demonio, mal sopportava la sua
devozione. Una volta, infatti, nel momento in cui Agnese terminata la preghiera
voleva scendere dal luogo in cui di tanto in tanto leggeva e pregava stando
vicina alla piccola finestra, fu fatta precipitare dal demonio per le scale in
modo così rovinoso che il gomito si staccò dalla relativa giuntura,
provocandole per più giorni un forte dolore. Agnese curò il male con la
medicina del divino amore, senza manifestare la propria sofferenza, per quanto
le fu possibile, alle suore.
Riferisco uno dei numerosi casi in cui il Signore, spinto dalla
preghiera di Agnese, si degnò di prestare la sua opera. Un giorno morì, quando
ancora era una bambinetta, la figlia del re suo fratello e venne condotta per
la sepoltura nel monastero di Agnese. La vergine di Cristo, appena vide la
regina in lacrime, mossa da grandissima compassione, si inginocchiò vicino al
feretro e, nel silenzio della preghiera, cominciò a recitare il ben noto
responsorio: “Tu che hai risuscitato Lazzaro già fetido nel sepolcro…”.
Improvvisamente il corpicino esanime cominciò a scaldarsi e le vene si misero a
pulsare come nei vivi. L’anima delle defunta così parlò allora alla vergine di
Cristo, che era immersa in preghiera: “Perché mi richiami dal gaudio alla
tristezza dell’esilio? Sappi, se farai ciò, io non potrò mai essere di sollievo
né ai cari genitori, né ad altro essere vivente”. Udite queste parole, Agnese
cessò di pregare per la risurrezione della fanciulla. Nello stesso istante il
piccolo corpo, che mediante il colore ed il movimento delle vene aveva
testimoniato il ritorno alla vita, si rifece freddo. Così da un sol fatto
vennero messe in luce la potenza della preghiera dell’umile, che era andata
oltre le nubi, la benevola condiscendenza di Dio con la quale Egli si volge ad
esaudire i desideri dei suoi figli, ed infine la prudenza di chi l’aveva
invocato.
Straordinaria fu la devozione di Agnese verso il Sacramento
dell’altare. Prima di ricevere l’Eucaristia, infatti, si ritirava in solitudine
e si preparava con preghiere e meditazioni piene di fede. Ricevette per molti
anni il Corpo di Cristo attraverso la finestra della propria stanza, preparata
per questo ufficio, non volendo rendere manifesti i segreti della divina visita
e del suo gaudio. Lì suggeva come una piccola ape il miele della dolcissima
divinità dalla roccia e l’olio dell’amore dalla durissima selce. Una volta,
colpita da una grave malattia, credette di morire. Si accostò allora, dopo la
consueta preparazione, alla mensa dell’Agnello senza macchia, con il massimo
fervore religioso. Con incredibile chiarezza mentre stava ricevendo il Corpo
del Signore, lo udì pronunciare queste parole: “Agnese, non pensare di morire
prima di aver visto morire tutti i tuoi cari”. Appena sentì questa rivelazione,
la confidò soltanto al ministro provinciale ed a qualche altra persona sotto
forma di un grande segreto. Gli avvenimenti testimoniano che ciò accadde
realmente.
VIII. Il fervido amore per la passione e per la croce di Cristo
Agnese, fedele serva di Cristo, amò con tutto il cuore la passione e la
croce del Signore. Ogni venerdì, nel momento della crocifissione, protraeva la
preghiera fino all’ora nona, restando amorevolmente accanto alla croce assieme
all’afflitta madre di Gesù. Mentre era in contemplazione del supplizio della
sua dolorosa morte, il suo sguardo con gli occhi dell’anima, mosso da profonda
pietà, restava immerso nell’amarezza. Per tutta la sua vita non cessò di
portare la preziosa croce dietro a Cristo, sopra le spalle della sua fede e con
la pratica delle virtù. Questa era infatti il suo vanto, questa era la scala
per salire le sue fatiche, le sue gravi malattie e le varie avversità
sopportate sempre con animo puro, come furono addolcite le acque di Mara. Con
il segno glorioso della croce portava conforto agli ammalati, cacciava i demoni
caparbi e compiva numerose altre azioni delle quali riferirò qui brevemente
soltanto una piccola parte.
Una nobile donna di nome Sofia, sposa di un cavaliere di nome Corrado,
abitava a Praga davanti al convento di Agnese. Dopo il parto si era talmente
indebolita che, restando per molti giorni senza mangiare e senza bere, aveva
assunto un aspetto che era più simile a quello di un morto che a quello di un
vivo. Un giorno, quasi in preda al delirio, cominciò a dire: “Voglia il cielo
che Agnese, la mia signora – era infatti da lungo tempo a lei devota – mi dia
da mangiare una mela”. A tali parole, suo marito, fiducioso che la sua sposa
potesse ottenere l’auspicata guarigione per intercessione di Agnese, si recò in
tutta fretta dalla serva di Dio e la pregò con le lacrime agli occhi di voler
intercedere presso il Signore a favore di sua moglie e volerle mandare una
mela. Asseriva, infatti, che in tal modo essa avrebbe riacquistato la
desiderata guarigione. Agnese, sempre pronta ad accorrere misericordiosamente
verso gli afflitti, mossa da compassione dalle lacrime del cavaliere, corse
subito nel frutteto del monastero: ma né lei, né le suore che l’accompagnavano
trovarono un sol frutto sull’albero verso il quale si erano dirette. Allora
fece il segno della croce rivolto a quell’albero ed invocò la Santissima
Trinità. Subito vide tre mele attaccate ad un unico ramoscello. Le colse e le
mandò alla nobile Sofia con queste parole: “Mangia tranquillamente questi
frutti avuti miracolosamente da Dio, perché da essi, secondo la sicura volontà
del Signore, otterrai la salvezza non solo del corpo, ma anche dell’anima”. Il
marito, pieno di contentezza, ritornò a casa con il salutare rimedio. Dopo aver
invocato con fiducia il nome del Signore, avvicinò le mele alla bocca della
moglie. Questa, avvertendo già la salvezza portatale con i frutti di Dio,
immediatamente aprì gli occhi, prese le mele e cominciò a mangiarle con tanta
avidità, come se non fosse mai stata ammalata. Così per la potenza della santa
Croce e per i meriti di Agnese, riacquistò la salute. Dopo un certo periodo di
tempo, la nobile donna, rimasta vedova, servì il Signore conservandosi casta.
Divenne madre di tutti i poveri compiendo opere di misericordia ed ottenne,
come le era stato predetto da Agnese, la migliore salvezza, quella dell’anima.
Una volta una suora del monastero, di nome Elisabetta Rehnikova,
giaceva a letto afflitta da un fortissimo mal di testa che ormai da tre giorni
le impediva di muovere il capo, di guardare in alto e di mangiare. Finalmente
la poveretta fu condotta a fatica da una suora alla presenza di Agnese. La
vergine di Cristo, conosciuta la sofferenza della consorella, tolse dal proprio
capo il velo bianco e lo fece porre amorevolmente su quello dell’inferma. Fece
poi sul capo e sulla fronte di quella il segno salutare della croce. Quando
queste azioni furono compiute, improvvisamente la suora si sentì guarita da
ogni dolore.
Un’altra volta la vergine di Cristo si dirigeva con ansia verso il suo
oratorio aiutata, a causa della debolezza, da una suora di nome Domka di
Svorec. Appena arrivarono videro, attraverso la finestra, l’angelo delle
tenebre che, sotto le orribili e deformi sembianze di un uomo, sembrava
appoggiarsi ad un albero. La suora che era con Agnese si mise a gridare dalla
paura. Agnese per tranquillizzarla fece il segno della croce di fronte al
demonio, invocando il nome della divina Trinità. Il demonio non sopportò la
potenza della croce ed immediatamente, con il volto tutto corrucciato, si
allontanò.
Un’altra volta ancora, mentre si dirigeva verso il suo oratorio
sorretta dall’imperatrice Elisabetta, sua parente, quando ormai stava per
oltrepassare la soglia di quel luogo, vide il demonio nelle sembianze di un
gufo che sembrò, anche agli occhi di Elisabetta, volerle con la coda ostruire
il passaggio. Agnese fece il segno della croce e subito cacciò il terribile
animale. Ella, infatti, degnamente agiva avvalendosi della potenza della santa
croce, poiché portava impressa nel suo cuore la passione dell’innocentissimo
Agnello immolato per noi sulla croce.
IX. L’abbondante carità verso le suore e verso gli afflitti
La carità con la quale la vergine di Cristo veniva incontro al prossimo
si manifestò più chiaramente attraverso i fatti. Una volta, in seguito
all’eccessiva astinenza dal cibo, le vennero meno le forze. Allora il papa ed i
suoi superiori ordinarono di portare a lei, anche contro la sua volontà, una
maggior quantità di alimenti. Ella tuttavia, con il vitto che le veniva inviato
per risollevare il suo esile corpo indebolito, faceva provvedere alla salute
delle suore deboli ed inferme, che lei stessa assai spesso andava a trovare,
prendendosi solerte cura di tutte le loro necessità. Come una chioccia riscalda
sotto le sue ali i pulcini, ella scaldava dolcemente le suore accostandole
all’ampio grembo della materna amorevolezza. Misericordiosa e prodiga verso
tutti i bisognosi era invece troppo parca ed austera verso se stessa; soffrendo
la fame nutriva gli altri e, pallida per i digiuni, era afflitta dalla fame
altrui. Durante tutta la sua vita, anche in quella trascorsa prima di entrare
in monastero, mantenne l’animo caritatevole verso tutti gli afflitti e
soccorreva con pie opere di beneficenza, tutti coloro che ricorrevano a lei
chiedendo aiuto a Dio e agli uomini. Restituiva la libertà ai fuggiaschi ed ai
carcerati, liberava dalla morte coloro che dovevano pagare il fio dei loro
misfatti e che dovevano essere torturati con vari supplizi, sedava le liti,
soccorreva a misura delle proprie possibilità ciascuno secondo i propri
desideri. Dio Onnipotente aveva riempito di così profonda pietà il cuore di
Agnese ed aveva cosparso sulle sue labbra una così dolce grazia che ella gioiva
con chi gioiva e piangeva con chi piangeva. Se poi un dolore qualsiasi
affliggeva qualcuno, se incombeva una calamità o se una disgrazia abbatteva una
persona, Agnese aveva per tutti la dolce parola di conforto. Se qualche volta
pensava di dover muovere un rimprovero, per un qualche motivo, ad una suora,
non passava sotto silenzio la colpa, ma, come colei che ha a cuore la salute dei
propri cari, si comportava con grande carità e saggezza, rimproverando con
maggior severità quelle suore che sembrava amare di più. Dopo aver poi
incoraggiato al bene con sante parole la suora che aveva un istante prima
rimproverata, Agnese si gettava umilmente ai suoi piedi dicendole: “Perdonami,
sorella cara, se in qualche cosa ti ho contristata”. Stava molto attenta,
infatti, a non rattristare nessuna suora, specialmente quando non ne vedeva la
necessità.
Anche di fronte ai peccati degli uomini emetteva dal profondo del cuore
affannosi sospiri, piangendo amaramente più per la loro caduta spirituale che
per la morte dei suoi cari familiari. A buon diritto dunque il Padrone di tutto
amò lei, perché anch’essa con tanta sincerità amò il prossimo.
X. Le rivelazioni a lei concesse da Dio
Non mi sembra da passare sotto silenzio il fatto che Agnese conosceva
le cose nascoste e lontane come se fossero visibili e presenti, rivelate a lei
da colui che mette in luce ciò che è nascosto nelle tenebre. Quando il figlio
di suo fratello, il re Premysl detto Ottocar, andò in Austria per combattere
contro Rodolfo, re dei Romani, le suore andavano spesso in processione portando
la santa croce ed altre reliquie e cantando devotamente salmi penitenziali al
Signore per la salvezza del loro re. Un giorno, mentre Agnese era in
processione con altre suore, vide il re, suo nipote, gravemente ferito nel
momento in cui veniva trasportato da due uomini di alta statura. Raccontò la
visione alle suore ritenendola un’illusione diabolica, perché non si
considerava degna di conoscere per rivelazione divina quanto aveva visto.
Invece, nello stesso momento in cui questa visione veniva presentata nei suoi
dettagli, il re, suo nipote, fu ferito, catturato ed ucciso dai nemici, così
come in seguito fu dimostrato dal racconto dei fatti realmente accaduti.
Un’altra volta una persona consegnò ad una suora alcune splendide mele
perché le portasse ad Agnese. La suora, vinta dalla concupiscenza degli occhi,
si appropriò di una mela che poi, presa dal rimoso di coscienza, di nuovo
ripose assieme alle altre. Consegnò quindi ad Agnese tutta la frutta così come
le era stata data. Agnese, che aveva visto il comportamento della suora, offrì
ad essa non solo la mela che aveva tanto bramata, ma anche un’altra dicendole:
“Hai fatto bene, o figlia, a riporre la mela: è meglio infatti per te avere due
mele senza il rimorso di coscienza, piuttosto che una sola mela con il
peccato”. Senza dubbio lo spirito di Eliseo abitava in Agnese, la quale vedeva
con l’anima tutto quello che avveniva in sua assenza. Un’altra suora di nome
Ermengarda, detta la Piccola, per una sua ragione personale rivolgeva in
maniera del tutto segreta molte preghiere al Signore. Il giorno in cui Agnese
se ne accorse, con molta fermezza le disse: “Cessa di ripetere continuamente la
preghiera che con ansia rivolgi al Signore, poiché la cosa per la quale tu
preghi non è accetta a Dio”. Anche in occasione della morte delle suore del suo
monastero, era solita stare accanto a loro con pia commozione ed implorava
supplichevolmente per loro la divina clemenza. Di alcune conobbe spesso, per
ispirazione, pene e delizie.
Un giorno una suora aveva pronunciato in assenza di Agnese alcune
parole offensive. Trascorso un certo periodo di tempo, senza aver chiesto le
debite scuse, la suora morì. Un giorno in cui la vergine di Dio era rimasta da
sola in preghiera udì accanto a lei l’anima della suora che riconosceva
umilmente il proprio peccato e chiedeva con insistenza e con voce sommessa di
essere da lei perdonata per intercessione di Dio, come se non potesse
altrimenti liberarsi dalle pene.
Un’altra suora di nome Brigida che era entrata in convento con Agnese
ed era a lei molto cara, si distingueva per onestà. Dopo aver trascorso molti
anni nell’osservanza della regola in maniera degna di lode, si ammalò
gravemente e morì. Agnese, che in occasione della sua malattia si era molto
addolorata, non manifestò invece alcun segno di mestizia per la sua morte.
Aveva visto, infatti, gli angeli del Signore che la servivano e spargevano
incenso sul suo corpo, dimostrandole tanto amore. Molti notarono che tutte le
sue predizioni, anche dopo lo spazio di molto tempo, si avverarono nel modo e
nell’ordine da lei precedentemente esposti, come apparirà dalla descrizione di
alcune di esse. L’anima di Agnese, ricolma com’era di spirito eterno per il
quale non esiste né passato né futuro, ma tutto è chiaro e svelato, oltre a
conoscere i segreti ed i moti dei cuori, esponeva con estrema certezza anche
gli avvenimenti futuri come se fossero presenti o passati.
XI. Morte e gli eventi ad essa legati
Era ormai vicino il giorno in cui Cristo voleva chiamare a sé da questa
terra la sua serva Agnese per ammetterla nella celeste dimora e per premiarla
delle sue pie azioni con la corona della giustizia. Si avvicinava il tempo
della grande quaresima durante la quale Agnese riceveva continue visite, in
segno di devozione, da parte di persone laiche. In questo periodo era solita
anche appartarsi dalle suore per seguire l’esempio di Cristo che nella
solitudine del deserto digiunò quaranta giorni e quaranta notti. Dedicandosi
solo a Dio, digiunava nella cenere e nel cilicio mentre con preghiere miste a
lacrime invocava Dio misericordioso perché la purificasse con l’acqua della sua
misericordia, nel caso che qualche cattivo residuo fosse a lei rimasto
attaccato dalla vita terrena. Un giorno la mano del Signore fu sopra di lei. Il
suo corpo cominciò a perdere vigore, per cui Agnese, presa da debolezza
sopraggiunta con grande rapidità, si mise a letto. Nella terza domenica di
quaresima, sentendo avvicinarsi l’ora della sua felice dipartita da questo
mondo, confidò in segreto a pochissime persone a lei più care che era giunto il
momento della sua morte. Con profonda devozione assicurò al suo viaggio il
benefico viatico, ricevette cioè la santa Eucaristia e la sacra unzione, alla
presenza dei frati e delle suore.
Contemporaneamente una suora dello stesso monastero, di nome Caterina
Eckadorva costretta a letto da più di dieci anni oppressa da una malattia ai
piedi, per cui era di gran peso per le suore che dovevano portarla da un luogo
all’altro, venuta a sapere che la serva di Cristo Agnese, a lei particolarmente
cara, aveva ricevuto la santa Eucaristia e stava ricevendo l’estrema unzione,
si mise a gridare ad alta voce, attirando così l’attenzione delle suore
assenti. Queste, allora, si recarono da lei che, con fortissima insistenza,
chiedeva di essere condotta alla presenza di Agnese. Non appena le fu vicina si
abbandonò ad un pianto inconsolabile, accompagnato da continue parole di
dolore: “Ahimè” – diceva – madre carissima, perché vuoi abbandonare le tue
figlie e me in modo particolare? E chi, dolcissima vergine, consolerà me
misera?”. Così le rispose la vergine di Cristo mossa a compassione del suo dolore:
“Non piangere, Caterina, perché tra poco il Signore ti consolerà”. Allora
Caterina e le altre suore cominciarono a chiedere con incessanti preghiere di
essere da lei benedette con il segno della croce. Poiché Agnese per umiltà non
acconsentì, Caterina prese con delicatezza una mano di lei e la pose sulla
parte dolorante del proprio corpo. Si sentì subito invasa da un dolore così
pungente che le sembrò di avere tutti i nervi spezzati. Dopo un leggero sudore
racquistò le forze e alla presenza di tutti cominciò a camminare. Da quel
momento in poi camminò sempre benissimo fino alla morte. Tutti ritennero che il
Signore si degnò di compiere questo miracolo per elevare i meriti straordinari
della sua serva, perché colei che in vita aveva brillato per santità, fosse
resa famosa con lo splendore del miracolo.
Sebbene fosse ormai abbandonata da quasi tutte le forze del corpo
conservava tuttavia uno spirito forte ed ardente. Pregava con devozione,
consolava con dolci e affettuose parole le suore che, costrette a rimanere
senza di lei, piangevano inconsolabili, e le esortava con materna benevolenza a
raggiungere la vetta della perfezione, rivolgendole loro queste parole:
“Figliole mie carissime, custodite con ogni sforzo l’amore verso Dio e verso il
prossimo, cercate d’imitare l’umiltà e la povertà che Cristo ebbe e che insegnò
a raggiungere, mostrandovi sempre obbedienti alla Chiesa di Roma, sull’esempio
del santissimo nostro padre Francesco e della venerabile vergine Chiara, i
quali trasmisero a noi questa regola di vita. Vi accorgerete sicuramente che,
come il Signore misericordioso non abbandonò mai Francesco e Chiara, così la
sua dolce clemenza non abbandonerà nemmeno noi, se seguirete con zelo il loro
esempio”. Queste ed altre esortazioni aveva impresso nel cuore delle sorelle
durante le ore della sera e della notte, come se si trattasse di un testamento
da rispettare integralmente per sempre. Il giorno seguente, cioè il lunedì,
cominciò ad essere pervasa da gioia, il suo volto si fece tutto sorridente e il
corpo si riempì tutto di luce fino all’ora sesta. Dopo l’inizio della Messa,
celebrata dai frati all’ora nona, circa l’ora in cui il Salvatore dell’umanità
spirò in croce per la nostra redenzione, l’ancella carissima a Dio, affidando
l’anima nelle mani del Padre celeste, il due marzo dell’anno di grazia 1281
[anno civile 1282] si addormentò serenamente nel Signore e, sorretta da una
scorta di angeli, entrò piena di giubilo nell’eterno gaudio.
O beata vergine, che per quarantasei anni nell’Ordine religioso si fece
partecipe della passione di Cristo, morendo nella sua stessa ora, e che,
respinta la caligine della mortalità, contempla ora limpidamente il sommo Dio
nella santa Sion con lo sguardo diretto dell’anima! O anima carissima a Dio,
che, separatasi dal carcere del corpo si dirige liberamente al cielo unendosi
ai cori inneggianti e, inebriata dal torrente delle delizie divine dell’eterna
festa e dell’eterno rendimento di grazie, canta con soave armonia le lodi in
onore del re della gloria, per essere uscita dall’attaccamento alle cose del
mondo!
XII. La sepoltura del venerabile corpo
Frattanto le suore, figlie di una così grande madre, rimaste prive di
conforto, riempivano di lamenti il monastero ed irrigavano di abbondanti
lacrime i loro volti di vergini. Trasportarono il corpo di Agnese nel coro ove,
pur rimanendo due settimane insepolto, emanava un profumo così straordinario
che chiunque si avvicinava alla salma veniva preso da insolita soavità. Anche
le sue innocenti mani si mostravano, a chiunque le accarezzava, non rigide o
dure come quelle di un morto, ma morbide e mobili come quelle di un vivente.
Per due settimane i frati Minori entrarono ogni giorno nel chiostro delle suore
e, attraverso la celebrazione di Messe e il canto delle ore canoniche, tributarono
alla salma le debite onoranze. Inoltre, quasi tutta la città, ogni giorno con
una grande moltitudine di persone, si recò al monastero chiedendo con vivissima
insistenza di poter vedere, almeno attraverso la grata, quel salutare tesoro
donato dalla generosa bontà di Dio. Tutte le numerose volte in cui il corpo
veniva mostrato all’incessante folla, veniva da molti toccato con grande
devozione. Vi si accostavano anelli, cinture ed altri oggetti con la speranza
di ricevere attraverso il loro contatto le grazie desiderate, per i meriti
della gloriosa vergine Agnese. In realtà assai spesso vennero accordate grazie
col soccorso della divina clemenza. Infine le suore, non potendo più sopportare
l’importunità di chi continuamente bussava al monastero, deposero con cura il
corpo di Agnese in un’arca nuova di legno e, dopo avervi adattato il coperchio
con alcuni ganci di ferro, la chiusero saldamente con un grosso chiodo.
Intanto la notizia della morte della gloriosa vergine, dilagando in
lungo e in largo, giunse attraverso veridici racconti ad una donna di nome
Scolastica di Sternberk nobile di costumi e di nascita, che amava dolcemente la
vergine di Cristo e con devozione la serviva. Quanto più frettolosamente poté
giunse a Praga. Con tutte le lacrime implorò le suore di lasciarla entrare in
monastero per vedere il corpo della sua prediletta, in quanto munita di
permesso da parte della Sede Apostolica. Ma le suore risposero che la regola
del monastero non permetteva ad una persona laica anche munita di permesso, di
entrare durante la quaresima. Aggiunsero poi che se anche la lasciassero
entrare, non le accorderebbero il permesso di vedere il corpo di Agnese. Vinte
finalmente dalle importune richieste, assecondarono il suo desiderio. La donna,
entrata nel monastero, si prostrò versando lacrime di dolore davanti all’arca
in cui era custodito il corpo di Agnese. Allora una suora si avvicinò all’arca
e con bisbigli chiese se doveva in qualche modo aprirla, poiché tale operazione
le sembrava particolarmente faticosa e difficile. Ma improvvisamente al suo
avvicinarsi, il chiodo che a forza era stato conficcato saltò da solo davanti
allo sguardo stupefatto delle persone presenti, provocando, con la sua caduta
sul pavimento, un certo rumore. L’arca si aprì ed apparve agli occhi di tutti
il corpo di Agnese. Tutto questo avvenne certamente non senza l’intervento di
Dio, che tiene in mano le chiavi di David, per i meriti della straordinaria
vergine, al fine di arrecare gioia alla nobile donna affezionata ad Agnese.
Intanto i frati e le suore inviarono nunzi al venerabile Tobia vescovo
di Praga e ai vicini abati, per ottenere che qualcuno di loro venisse a
tumulare con i debiti onori il corpo di Agnese. Ma tutti, per un
imperscrutabile disegno di Dio, rifiutarono l’invito portando a pretesto
ciascuno i propri impegni. Poco prima di morire, infatti, l’inclita vergine
aveva predetto che sarebbe stata sepolta non da un vescovo o da un alto prelato
di un altro Ordine, ma da un frate Minore mai visto prima di allora in terra
boema. Giunse, quattordici giorni dopo la morte di Agnese, il venerabile padre
fra Bonagrazia, ministro generale, il quale il giorno successivo al suo arrivo,
cioè la domenica di passione, seppellì con devozione e con grande onore,
assieme ad altri numerosi frati che erano lì accorsi, quel prezioso pegno
d’amore nella cappella della santissima Vergine Maria, così come Agnese aveva
richiesto, nel luogo cioè, in cui nei momenti di particolare necessità era
solita ascoltare le Messe. Lì per molti giorni, un fragrante profumo inondò le
suore che vi si recavano a pregare. Un giorno una suora che si era lì raccolta
in preghiera, addormentatasi, vide la vergine di Cristo. Le chiese allora il
perché di quell’intenso profumo proveniente dalla sua tomba. Agnese rispose che
esso era dovuto alla moltitudine degli angeli celesti che venivano a visitare
il suo corpo. In verità era cosa del tutto giusta che il suo corpo profumasse
soavemente dopo la morte. Essa, infatti, come un’aiuola di aromi seminata dal
giardiniere del cielo, mentre era in vita profumava dolcemente con i fiori
delle sue virtù. Ora, dunque, trapiantata fra i fiori celesti, come un fiore di
rosa, rifiorisce gloriosa nei giorni dell’eterno gaudio e supera il profumo di
tutti gli aromi.
Ora in verità, viene castamente abbracciata dal suo candido e vermiglio
diletto, per amore del quale rifiutò lo sposo terreno. Ora l’umile ancella
viene premiata da lui nella dimora celeste con una gloriosa corona a ricompensa
della vita trascorsa nella cenere e con l’olio dell’eterna gioia, a ricompensa
delle sofferenze terrene. Ora arricchita dai tesori dell’eterna felicità, in
cambio dell’estrema povertà, risiede nei pascoli ubertosi vicino a fiumi ricchi
d’acqua, ricolma di delizie divine a ricompensa della sua temperanza. Ora, dopo
che il saio si è ridotto a brandelli, indossata la veste della letizia ed
ornata come una sposa di monili, fatti di virtù, entra nella stanza del vero
Assuero, per unirsi per sempre a lui con i legami dell’amore spirituale. Qui
con le figlie di Sion esultante nel suo Re, vede il Suo volto nel giubilo e si
associa senza stanchezza alla gloria di Dio. Di questa gloria renda partecipi
anche noi, per intercessione e per i meriti dell’inclita vergine, il nostro
Salvatore amorevolissimo Gesù Cristo al quale assieme al Padre e allo Spirito
Santo siano resi ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.
XIII. I miracoli compiuti da Agnese per intercessione divina
L’onnipotente Iddio, che con la sua munifica pietà esalta i suoi santi,
chiaramente magnificò Agnese, vergine beata di santa Chiara, nobile pianticella
del regno di Boemia, non solo perché le concesse di operare numerosi miracoli,
venendo in aiuto con la sua destra misericordiosa a chi, trovandosi nelle
sofferenze e nei pericoli, invocò il nome della sua serva. Per far in modo che
il glorioso Dio sia ancor più benedetto e lodato nei suoi santi e venga
aumentata la devozione dei fedeli verso la venerazione della sua luminosissima
vergine, ho ritenuto opportuno esporre in breve almeno alcuni dei numerosi
miracoli.
[…]
O vergine benigna, che nel lido della celeste patria ti allieti della
tranquilla dimora, rivolgi gli occhi tuoi misericordiosi assieme agli altri
tuoi devoti, a me che sono il più piccolo tra i più piccoli servi di Dio e che
balbettando ho esposto, come mi è stato possibile, le tue gesta gloriose. Con
le tue santissime preghiere trai fuori dalle acque dell’abisso e dal fango
della palude noi che ancora siamo sbattuti, miseri, in un mare burrascoso e
che, traendo a fatica la barca del nostro corpo attraverso voragini tempestose,
non conosciamo se potremo pervenire ad una spiaggia sicura. Fa’ che non ci
sommerga la sempre mutevole tempesta d’acqua, cioè la tribolazione, e non ci
assorba l’abisso dell’eterna dannazione.
Prega la maestà di Dio, del quale ora stai godendo la visione piena di
giubilo, perché si degni di guidarci con la sua potente destra attraverso i
flutti di questo mare, permettendoci di passare in mezzo a Scilla e Cariddi e
di raggiungere tranquillamente il porto dell’eterna felicità con la barca e le
merci portate in salvo, dopo essere scampati da entrambi i pericoli. Questo
voglia garantirci per i tuoi sacri meriti e per le tue preghiere Colui che è
Dio benedetto, degno di essere lodato e glorioso nei secoli dei secoli. Amen.
Nessun commento:
Posta un commento