Vita di santa Filippa Mareri
IV Filippa Mareri
La fonte principale per conoscere la vicenda di santa Filippa
Mareri è la Legenda tratta dall’ufficio liturgico in suo onore. Si tratta di
nove letture prese da una Vita probabilmente scritta alcuni anni dopo la sua
morte nel 1236 – in vista della canonizzazione – di cui non si sono conservati
codici manoscritti, ma solo si conosce la redazione che costituisce le nove
letture dell’Officium Beatae Philippae Mareriae virginis Ciculanae stampato in
una prima edizione a Roma nel 1545 ed una seconda a Napoli nel 1668.
I. LA NASCITA
Santa Filippa Mareri |
La straordinaria donna di nome Filippa, della zona del
Cicolano, ebbe i natali nel castello di Mareri. Suo padre, un nobile barone di
nome Filippo, possedeva molte ricchezze. La madre, di nome Imperatrice, era
nata da nobili baroni, e tutta la sua schiatta poteva vantare una famosa
progenie. Mentre la madre era gravida di lei e, come suole accadere a tutte le
donne, aveva cominciato a pensare all’evento del parto, narrò che le era
apparsa una visione siffatta. Vedeva, infatti, che un pellegrino di bellissimo
aspetto avanzava verso di lei portando con sé una florida palma. Con il volto
atteggiato a letizia, rapidamente pose la palma nella sua mano, ma poco dopo se
la riprese, volendo con ciò indicare che la donna avrebbe partorito la palma
dei fiori delle virtù, e che questa, con il gradito ossequio floreale era
destinata a servire presto Gesù Nazareno.
E mentre durante la gravidanza le donne, secondo il corso
voluto dalla natura, sono solite sentirsi sempre più appesantite, la madre,
affermando di dire la verità, riferì che prima del parto non avvertì alcun
appesantimento del seno, durante il parto non sentì quasi nessun dolore, e dopo
il parto la nutrice non perdette il suo sonno abituale per custodire la
bambina, che era sotto la custodia del cielo. Quanto più, per mirabile azione
naturale, la bambina cresceva, tanto più essa appariva in tutto e per tutto
graziosa e gradita agli occhi di tutti. E chi la vedeva, per la sua
straordinaria grazia, quasi per ispirazione divina affermava che essa avrebbe
compiuto grandi cose in questo mondo, come in seguito fu dimostrato dai fatti.
II. LO STUDIO DELLA SACRA SCRITTURA E LA SEVERITÀ DEI
COSTUMI
All’inizio della sua giovinezza, Filippa volle istruirsi
nelle Sacre Scritture, in cui la volontà divina, in rapporto alla capacità del
suo ingegno, sembrava esprimersi più apertamente e manifestarsi chiaramente.
Ogni qualvolta poteva trovarsi a contatto con qualche uomo che avesse profonda
conoscenza dei testi sacri e che fosse al tempo stesso scrupoloso osservante
della castità, lo pregava umilmente affinché volesse alimentare la sua mente
con le Sacre Scritture, desiderosa com’era di ristorarsi più con il cibo
spirituale che con quello materiale. E poiché non prova delizia soltanto chi
ascolta la parola di Dio, ma anche chi opera in modo conforme ad essa, proprio
per questo Filippa, superando la passività delle orecchie, faceva di tutto per
mettere in opera le parole che aveva ascoltato e che avevano il sapore della
divinità. E sebbene fosse una fanciulla ben formata e bella come una
principessa, tuttavia evitava decisamente ogni atto consono alla sua età, e
così una grande serietà di costumi rendeva più belle le sue azioni e adornava i
suoi gesti, così che si manifestava chiaramente nel suo animo e nel suo corpo
la grande modestia di una venerabile vecchiaia.
E IL DISPREZZO PER LE COSE MONDANE
Da san Francesco e da altri religiosi accuratamente istruita
e perfettamente informata nelle cose del Signore, cominciò a disprezzare il
mondo con le sue pompe e le sue ricchezze, che, come si sa, sono
particolarmente nemiche della salvezza delle anime, e, messasi sulle orme dei
santi Padri, si premunì di uno scudo impenetrabile e delle armi spirituali atte
a respingere coraggiosamente i dardi infuocati del demonio. Quando giunse in
età da marito ed erano già avviate molte trattative con molti nobili giovani
circa il suo futuro, affinché essa potesse andare sposa con fasto e pompa
mondana, alla fine la fanciulla dai genitori fu messa al corrente delle
trattative. Essa, però, con ferma decisione rifiutò uno sposo mortale, come se
fosse un nemico del suo corpo, desiderando essere la sposa dello Sposo celeste,
al quale aveva fatto voto della castità della mente e del corpo, non di uno
sposo mortale. Vegliava con molta cura sulla salvaguardia di se stessa,
preoccupandosi soprattutto della custodia di un tesoro inestimabile, vale a
dire, della sua verginità, riposta in un vaso di coccio, che desiderava
preservare in onore della santità attraverso l’intatta purezza nei confronti di
qualsiasi uomo. E, dato che non disponeva di alcun luogo appartato in cui
potesse meditare tranquillamente tanto sulla propria salvezza quanto su quella
altrui, si chiuse in una camera della dimora paterna come in un carcere: e lì,
pregando e lacrimando di tutto cuore, supplicava devotissimamente Gesù Cristo,
perché la facesse uscire dalla terra d’Egitto, cioè da questa valle di lacrime,
e, usando della sua abituale misericordia, si degnasse di condurla il più
velocemente possibile nella terra promessa. Tuttavia, anche stando in quella
camera, per il disturbo e il fracasso di suo fratello Tommaso, nonché degli
altri parenti e della servitù, non poteva avere la tranquillità che la sua
anima desiderava. Perciò, confortata dallo Spirito Santo, decise, come serva del
Signore, di rinunziare completamente a se stessa, e umilmente si affidò tutta
alla volontà di Dio.
IV. LA SUA COMPLETA
RINUNZIA AL MONDO
E IL CAMBIAMENTO DELL’ABITO
Tagliatisi, dunque, completamente i capelli, li buttò via, e
avendo costituito una comunità di donne dotate di nobili sentimenti, si diresse
prontamente verso la montagna, e precisamente a una grotta esistente sopra
Mareri, e lì, deposto l’abito secolare, sfarzoso e adorno, che prima splendeva
di seta e di pietre luccicanti, in segno di amore verso Colui che, per salvar
l’umanità, fu sospeso nudo sulla croce, si accontentò in seguito di portare
un’umile veste, isolandosi da povera dalle miserie di questo mondo, fatta segno
anche a non poco disprezzo. In quel luogo, desiderando vivere una vita
eremitica, come se si trovasse in un eremo, con quella piccola comunità di
donne religiose che si sforzano di seguire le sue orme, si dispose a rimanere
sotto la protezione divina, finché Cristo, nelle cui mani si era messa
completamente, nella sua misericordia non decidesse di lei altrimenti.
Pur avendo dedicato la parte migliore di sé alla vita
contemplativa, riservò una parte di sé anche alla vita attiva, adoperandosi
molto opportunamente a rendere più confortevole il luogo con la costruzione di
mura più ampie e di edifici all’interno e all’esterno, e facendo recintare con
molta cura i luoghi che erano intorno a sé e alle sue compagne, secondo quanto
richiedeva la purezza di santità, in relazione alla disponibilità del luogo.
Intanto il fratello Tommaso, uomo certamente saggio e
discreto, riconsiderando dentro di sé quelle vicende, per quanto si rendesse
conto di essere stato raggirato dall’astuzia della donna, modificò finalmente
la sua opinione, dato che quelle cose avvenivano per volere di Dio. Salì,
dunque, alla volta di quel luogo e con tono di preghiera chiese alla sorella di
trasferirsi con le sue compagne, come madre e padrona, nella chiesa di San
Pietro per trattenervisi: egli prometteva che avrebbe di buon grado e
spontaneamente affrancato per sempre il luogo, essendo l’unico padrone naturale
di quella chiesa. Filippa allora, accogliendo umilmente la preghiera del
fratello, confortata dallo Spirito Santo, con le sue compagne discese dal monte ed entrò nella chiesa
suddetta, con grande gioia dei suoi due fratelli, intenzionata a vivervi in
perpetua penitenza, secondo la prassi e la regola che le risultava essere
seguita dall’illustre vergine Clara con le sue consorelle.
V. LA ORGANIZZAZIONE DEL MONASTERO E LE SUE FRANCHIGIE
Poiché quella serva di Cristo desiderava far crescere il
culto di Dio, attirò verso di sé la sorella, che era stata già promessa in
matrimonio, e inoltre parecchie nipoti e altre nobildonne, con le quali, e con
altre che, attratte dalla fama della sua santità, affluivano presso di lei,
costituì un’ottima comunità votata al servizio perpetuo di Gesù Cristo. Avendo
dunque, col favore e la volontà di Cristo, trasformato la chiesa della pieve in
un monastero secondo la regola della vergine Clara, lo dotò opportunamente di
libri e paramenti sacri, che sembravano indispensabili all’esercizio del culto,
e con i beni delle sue compagne e quelli del suo patrimonio fece erigere anche
nuove costruzioni, sia claustrali sia comuni, in relazione alle necessità.
Considerando poi che la condizione servile degli esseri è talvolta di ostacolo
all’esercizio dei doveri spirituali, volle che il monastero ne fosse esente e
lo esonerò dal giogo della servitù, facendosi rilasciare dal fratello un atto
pubblico di stabile affrancamento e di perpetua libertà. E acciocché
quell’esenzione ottenesse forza e validità perpetua, da parte della Chiesa
reatina, che è il capoluogo della diocesi, ottenne in breve tempo i privilegi
dell’esenzione, convalidati autorevolmente dalla Curia romana. Messo dunque in
ordine il monastero e rafforzatolo al meglio, perfezionò la regola per le
sorelle in Cristo, modellandola su quella che la nobile Clara osservava con le
sue sorelle nel suo monastero, e custodendole attentamente come pecore di gran
pregio affidate alle sue cure, con l’onestà degli atti e con la sue virtù le
educava come una madre educa le figlie, promettendo mansioni stellari in cielo
e quelle che avessero superato la prova e che servissero devotamente il
Signore. Le consorelle, dal canto loro, seguendo i suoi consigli e la regola al
limite delle loro forze, nei loro cuori consideravano più dolci di un favo di
miele le sue parole ispirate dalla grazia dello Spirito Santo.
VI. LA SUA UMILTÀ E LA MACERAZIONE DELLA CARNE
Mentre l’ancella di Cristo se ne stava nel monastero e
splendeva come la stella Lucifero tra le altre stelle, piena di virtù avanzava
di bene in meglio, così da fare ogni cosa ordinatamente e da mettere in atto i
consigli divini. In mezzo alle sorelle era semplice come una colomba, e,
guardinga come un serpente nel condurre a buon fine gli affari. Ubbidiva
umilmente alla santa madre Chiesa e al suo padre spirituale, il frate Ruggero,
dell’Ordine dei Frati Minori (che Dio esaltò durante la sua vita terrena per i
suoi meriti con molti miracoli), ben sapendo che Adamo per la sua disobbedienza
era stato cacciato dal Paradiso terrestre. Vivendo in mezzo alle consorelle,
non voleva essere servita come una superiora, bensì servire puntualmente,
adoperandosi ad esercitare i più piccoli e i più umili servizi del monastero,
per diventare imitatrice del mandato del Signore, il quale disse: «Imparate da
me, che sono mansueto e umile di cuore» (Matteo, 11,29). E poiché il primo uomo
perì per la sua gola, essa lesinava il cibo al proprio minuscolo e delicato
corpo, e con i suoi digiuni e un’astinenza che ha dell’incredibile, lo
indeboliva a tal punto che a mala pena, quando camminava, poteva reggersi in
piedi. Inoltre, essendo come una lucerna ardente e brillante, posta sopra un
candelabro perché fosse di esempio agli altri, e coltivando le virtù, che
costituiscono i cibi celesti delle anime, fuggiva scrupolosamente l’ozio come
se fosse il veleno delle anime. Perciò si affaticava diligentemente in lavori
manuali, e tenendo presente l’esempio degli Apostoli, soggiogava il suo corpo
al più umile stato di servitù, acciocché la carne ubbidisse prontamente allo
spirito come una serva. Ogni qualvolta si ammalava, accogliendo la malattia
come un beneficio di Dio, tra le fitte del dolore diceva con gioia: «La virtù
durante la malattia si affina, e io gioirò di buon grado delle mie malattie,
affinché la virtù di Cristo abiti dentro di me». E ripiena della consolazione
dello Spirito Santo, si rassegnava dicendo: «Dio, nostro rifugio e virtù,
soccorritore delle tribolazioni, che molto ci affliggono».
VII. LA SUA CARITÀ VERSO IL PROSSIMO E LA SUA PIETÀ
Essendo l’avarizia, come dice san Paolo, schiavitù nei
confronti degli idoli (Efesini, 5,5), la serva di Cristo si teneva ben lontana
da essa e, incurante del futuro, offriva generosamente tutto ciò di cui
riteneva di poter disporre per omaggio a Cristo e per il benessere dei poveri
di Cristo. Quando sentiva la voce dei poveri che chiedevano l’elemosina in nome
dell’amor di Dio, molto si rallegrava dando segni di grande esultanza, e ai
presenti diceva con volto sereno: «Oh, quale voce dolcissima è questa, e piena
di celeste melodia, dato che essa ci ripropone l’autentica immagine di Cristo,
ci stimola pressantemente a un’opera meritoria, e ci esorta e spinge con
fervore alla carità fraterna!». Tosto, ascoltando la loro voce e facendo
seguire i fatti, nascondeva nel loro seno un’abbondante elemosina, per mezzo
della quale, come dice il Signore, vengono cancellate le macchie dei peccati.
Talvolta, essendo madre di umiltà, per amore di Cristo
serviva personalmente gli stessi poveri, perché si accrescesse il suo tesoro in
cielo, dove né ruggine né tarli hanno potere di distruzione, e dove i ladri non
scassinare né rubare. E poiché, come il cervo desidera raggiungere le sorgenti
delle acque, così essa desiderava la salvezza delle anime, ambiva confortare
nel servizio di Dio tutti coloro che si rivolgevano a lei, promettendo con
fiduciosa speranza a quelli che servivano devotamente Cristo, che avrebbero
ottenuto gioie eterne dopo questa vita.
Con la sua totale umiltà e pazienza confondeva i superbi e
gli arroganti in modo tale, che ciò si può ascrivere a miracolo. Ad esempio, se
qualche laico andava superbo in qualche cosa, essa adduceva la testimonianza
delle Sacre Scritture, dicendo: «Dio resiste ai superbi, e invece concede la
sua grazia agli umili». Coloro che dopo un colloquio con lei, corroborato dalla
grazia divina, le davano ascolto, subito deponevano la loro superbia e
cercavano di acquisire nel maggior grado possibile la virtù dell’umiltà. Essa
si rattristava molto dei vizi e delle ignominie del prossimo, e se vedeva o
sentiva dire che le anime redente dal sangue prezioso di Gesù Cristo fossero
inquinate da qualche sozzura di peccato, trafitta straordinariamente
dall’aculeo del dolore, piangeva con una tenerezza di commiserazione così
grande, da partorirle ogni giorno in Cristo come una madre, e prontamente
supplicava piangendo l’onnipotente Iddio per la loro salvezza, affinché le
sottraesse celermente al loro infelice stato, e si degnasse di condurle
prontamente alla completa salvezza. Il suo animo si scioglieva continuamente di
fronte alle persone infelici e malate, e a quelle alle quali non poteva dare
una mano, faceva giungere il suo affetto. Infatti, qualunque carenza, qualunque
insufficienza vedesse in qualcuno, con la dolcezza del suo cuore devoto la
faceva risalire a Cristo. E così grande fu l’abbondanza della pietà nel suo cuore,
che nel cercare di alleviare le miserie delle persone nel suo cuore sembrava
dotata di viscere materne. Aveva infatti anche una mitezza congenita, che
l’amore di Cristo raddoppiava.
VIII. L’EFFICACIA DELLA SUA PREGHIERA E IL SUO SPIRITO
PROFETICO
Essendo entrata nel monastero sua nipote Imperatrice, figlia
del signore Ruggero di Montana, essa fu ben presto visitata dai suoi fratelli e
dal signor Tommaso Mareri, che ne chiesero con parole concitate la
restituzione. La serva di Cristo, di fronte alla loro insistenza, decise di
accondiscendere alla loro volontà, e già essi la riportavano fuori dal
monastero alla vita secolare contro la sua volontà, conducendola davanti alla
porta del monastero, quando all’improvviso Filippa si pentì piangendo di aver restituito
sua nipote, e tosto, prostrata a terra, indirizzò con molto fervore una
preghiera al Signore. Allora lo Spirito Santo infuse nella nipote un così
grande peso, che i suoi parenti, sentendosi mancare le forze, non furono più in
grado di portarla via, ed essa fu ritrovata sola in quel medesimo luogo davanti
alla porta, del tutto abbandonata dai malvagi predetti.
La figlia del nobiluomo Bernardo da Valviano, di nome
Margherita, mentre per una malattia aveva la bocca distorta in maniera assai
brutta e mostruosa, supplicò con molta devozione la Santa, affinché vi
apponesse la sua mano con il segno della croce. Per umiltà la Santa rifiutò di
fare ciò, parlando immediatamente con il linguaggio degli umili servi di Dio: «Cristo
nostro Signore, o brava figliola, si degni di aiutarti con la sua solita pietà».
Ma quella di scatto, afferrando la sua mano, con essa piamente sfiorò la parte
malata, e poco dopo riebbe diritta e guarita la bocca, completamente restituita
al suo primitivo stato naturale.
Una volta, lamentando la dispensiera con voce piagnucolosa
che nel granaio restava poco frumento e che in nessun modo poteva bastare fino
alla raccolta delle messi, Filippa, che aveva riposto ogni sua speranza e
fiducia in Cristo, avendo saputo ciò, dopo avere recitato sommessamente una
preghiera, si avvicinò al granaio e, toccando con le sue mani quel poco di
frumento e rivoltandolo da una parte e dall’altra, si ritirò con gioia e con
volto sorridente. Ma Dio, che è colui che accresce tutte le grazie, per i
meriti della sua serva conservò e moltiplicò quel poco di frumento a tal punto,
che esso bastò in abbondanza sia per le suore, sia per i poveri e per i
viandanti fino alla fine della raccolta delle messi, quantunque intercorressero
molti mesi tra l’una e l’altra circostanza.
Quantunque la serva di Cristo celebrasse con devozione tutte
le feste del Salvatore, della sua Madre Vergine e degli altri Santi, tuttavia
il suo spirito celebrava più devotamente, con grandissima partecipazione
dell’animo, la festa della Resurrezione del Signore, e si riempiva di una
particolare gioia spirituale, considerando il trionfo del Salvatore sul nemico
e la straordinaria potenza della resurrezione. In occasione della medesima
festività, dopo avere ascoltato e considerato con la dovuta riverenza gli
uffici divini unitamente alle consorelle, quando arrivò l’ora del pranzo,
l’ancella di Cristo, riunite le consorelle suddette nel refettorio, con volto
sereno benedisse i piccoli pani posti sulla mensa. Ma Colui che per la sua
misericordia con cinque pani sfamò cinquemila persone, moltiplicò quei pani
benedetti dalla sua ancella a tal punto che, pur mangiandone le consorelle sia
nel giorno della festa sia per tutta l’ottava successiva, essi non diminuirono
affatto il numero, ma dopo il pasto se ne ritrovavano nella stessa quantità
posta sulla tavola imbandita, senza che fosse stato aggiunto affatto dell’altro
pane, mentre quelli messi a tavola sarebbero stati a mala pena sufficienti per
un pasto modesto.
L’ancella di Cristo, perfusa di celeste rugiada, era di così
grande devozione e rispetto nell’osservanza dei sacramenti divini ed
ecclesiastici, che nei limiti del possibile non tollerava che avvenisse
alcunché di turpe o di sconveniente nelle chiese dedicate a Dio. Perciò,
soffermandosi molto spesso in preghiera nella chiesa, che è la madre di Cristo
– nella quale la stessa Vergine delle Vergini le apparve e le rivelò i misteri
–, dato che amava quella chiesa più di qualsiasi altra e trascorreva in essa la
maggior parte del suo tempo, portava sempre con sé una scodella di legno, nella
quale sputava quando vi era costretta da esigenze naturali, affinché insieme
con la grazia celeste delle lacrime non deturpasse il pavimento della chiesa
suddetta con qualche sputo. A quella scodella l’altissimo Iddio, per i meriti
della sua ancella, dopo la morte di lei, dall’alto del cielo concesse una così
grande potenza di guarigione, che moltissimi ammalati di entrambi i sessi,
amarissimamente sofferenti per varie malattie, bevendo devotamente l’acqua con cui veniva lavata
quella scodella, furono guariti, e spesso, come in molti appare evidente,
vengono guariti per i meriti di lei, come più avanti sarà scritto più
compiutamente e più chiaramente riguardo ad alcuni.
Il Dio della luce inaccessibile e Padre delle stelle con il
raggio celeste rischiarò l’anima della sua ancella di tanta luminosità, che
essa con gli occhi della mente vedeva apertissimamente e conosceva con piena
sicurezza tutti i secreti delle sue consorelle sia presenti sia assenti, nonché
tutto ciò che portavano in cuore e nel corpo. E se talvolta per una maligna
suggestione si fossero abbandonate a pensieri sconvenienti, essa, parlando
amorevolmente o disponendo un’adeguata correzione, le richiamava alla
penitenza, e in mezzo allo stupore generale, quando riteneva che fosse
opportuno, raccontava quegli stessi pensieri, prolissi o sconvenienti che
fossero, prima che qualcuno ne avesse parlato, tanto alle stesse sorelle quanto
agli altri.
IX. LA MORTE DI FILIPPA E L’ESORTAZIONE RIVOLTA ALLE
CONSORELLE
Volendo Iddio, premiatore di tutti i buoni, sottrarre
Filippa alle miserie di questo mondo e proporla ulteriormente agli uomini come
utile esempio, affinché non rimanesse nascosta come una lucerna sotto il
moggio, ma brillasse a vicini e lontani, nonché assegnarle il premio del cielo
per le sue fatiche affrontate in questo mondo, essa, colpita da un grave languore
fisico, seppe in anticipo che doveva abbandonare il tabernacolo del proprio
corpo, e tre giorni prima della sua morte ne diede l’annunzio alle sue
consorelle e, confortandole amorevolmente con parole di consolazione per la sua
morte, come se fossero state delle figlie carissime, con affetto materno le
esortò all’amore di Dio, Ma esse con lacrime e sospiri dicevano: «Perché, o pia
madre, ci abbandoni, o a chi sconsolate ci lasci? Affida il tuo gregge al
Pastore eterno, affinché dopo questa vita possiamo felicemente regnare insieme
con te». Ad esse Filippa con spirito profetico e con voce di colomba, essendo
sicura della sua immarcescibile gloria, diceva: «Figlie carissime, non piangete
per me, perché mi accoglierà il seno di Abramo, dove non potrà esserci alcun
lutto, ma gioia eterna, al di sopra delle teste dei beati. Si muti in gioia la
vostra tristezza, e io vi aiuterò in tutto ciò in cui sarà necessario.
“Desidero morire e trovarmi in Cristo” (Filippesi 1,23), affinché “la mia
porzione” si trovi “nella terra dei viventi” (Salmo 141,6). “Chi mi darà le ali
come quelle di una colomba, e volerò e riposerò?” (Salmo 54,7). “Ecco, già vedo
ciò che ho desiderato, posseggo già ciò che ho sperato, Colui che ho amato con
totale dedizione durante la mia permanenza sulla terra” (Leggende di s. Agnese,
in Acta Sanctorum, II, p. 353, 21 gennaio). Ma voi cercate conforto nel Signore
e nella potenza della sua virtù: Dio, infatti, con accurata valutazione darà a
ciascuno la ricompensa dei propri meriti. Perseverate fino alla fine nel
servizio del Creatore, che tiene conto non dell’inizio, ma della buona fine, e
a coloro che hanno la meglio sui vizi e sui peccati concede con molta
generosità una corona di onore indicibile e di gloria inenarrabile. Portate
nella mente e nel corpo tutto ciò che ho fatto, e la vostra umiltà serva da
condimento alle vostre virtù. E poiché l’invidia oppure l’odio sono come del
veleno mortifero da espellere, la pace del Signore, che è al di sopra di ogni
sentimento, custodisca i vostri cuori».
Completate queste ed
altre melliflue esortazioni, affidò umilmente a Gesù Cristo la sua fine, e
corroborando il suo spirito con la santa Eucaristia e con tutti gli altri
sacramenti, in presenza del sant’uomo fra Ruggero e di alcuni altri frati
dell’Ordine dei Frati Minori, molti noti e apprezzati per la loro santità,
nonché delle sue consorelle che invocavano Cristo, raggiunse felicemente
Cristo, il quale tre giorni prima del trapasso aveva fatto vedere il cielo
aperto e la sua gloria, come la stessa Filippa rivelò al suddetto fra Ruggero e
come quest’ultimo riferì davanti al popolo poco dopo, nel giorno della morte di
lei, in una predica solenne. Nella stessa notte in cui la beata Filippa morì,
la notizia rimbalzò tutt’intorno per castelli e villaggi, per annunziare: «È
morta santa Flippa». La mattina seguente, poi, si verificò un grande accorrere
di gente sul posto, uomini, donne e chierici recanti ceri accesi, che
acclamavano dicendo: «Santa Filippa, Santa Filippa, aiutaci con le tue
preghiera presso Dio!».
Quella vergine consacrata a Dio concluse questa vita terrena
nell’anno del Signore 1236, il 17 febbraio, al tempo del papa Gregorio IX,
nella notte di un giorno di domenica, e fu sepolta nello stesso giorno,
splendente di miracoli. E circa nella stessa ora, a mezzanotte, in cui Cristo
per la salvezza dell’umanità uscì dal seno della Vergine, quell’anima beata
uscì dal carcere del corpo e, attorniata da schiere di santi Angeli, entrò
gloriosamente nella reggia del regno celeste. Presso la sua tomba, per i meriti
da lei acquisti con varie malattie prossime e lontane, ottenne dall’alto i doni
di una perfetta guarigione a coloro che si accostavano con fede e devozione e
che li chiedevano con umiltà, essendo garante nostro Signore Gesù Cristo, al
quale unitamente al Padre e allo Spirito Santo va l’onore e la gloria per tutti
i secoli dei secoli. E così sia.
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