lunedì 19 novembre 2012



Predicatori e confessori istruzioni per l’uso
La disciplina penitenziale tra Gregorio VII e Bonifacio VIII
di Krzysztof Nykiel

Chiesa Gregorio VII
Quello di Gregorio VII fu un pontificato grande e difficile, vissuto infine dal Pontefice come una sconfitta. Un pontificato segnato da grande rilevanza politica, scaturita tuttavia da una fortissima connotazione religiosa. Non la fuga o il disprezzo del mondo ispiravano l’agire del Pontefice, quanto piuttosto la consapevolezza che fosse necessaria una nuova cristianizzazione del mondo, nel quale sembravano spesso dominare lupi voraci.
Un progetto che richiedeva, necessariamente, una vasta opera di riforma e che assegnava al clero un ruolo insostituibile di guida e disciplinamento della società. I secoli seguenti furono secoli di trasformazioni profonde, che segnarono anche la storia della penitenza e delle sue forme, nella quale assumerà un ruolo sempre più rilevante proprio la persona del sacerdote. Un sacerdote che si voleva capace di discrezione, poiché «agli occhi di Dio — asseriva Burcardo di Worms — non ha tanto valore la testimonianza temporale della penitenza, quanto piuttosto l’intensità della contrizione; come pure non ha tanto valore il digiuno in sé e per sé, quanto la mortificazione dei vizi».
Proprio per offrire «direttive a ogni sacerdote, anche se non particolarmente competente», perché potesse essere d’aiuto a ogni persona di ogni sesso e condizione, al sano e all’ammalato, Burcardo scrisse il XIX libro del suo Decretum, appunto il Corrector, o Medicus, destinato ad abbracciare «in tutti i loro aspetti sia le pene corporali come pure i rimedi spirituali». Un’opera, quella di Burcardo, che segnò la disciplina penitenziale dei secoli futuri, fino all’alba del XIII, quando Alano di Lilla redasse il suo Liber poenitentialis, testimonianza di un passaggio ormai avvenuto.

La disciplina penitenziale sembra così concentrarsi sulla contritio cordis, che sola può favorire una conversione completa, resa visibile da opere concrete, ciò che finiva per dare maggior risalto al ministero sacerdotale, chiamato a un delicato discernimento che richiedeva, nel presbitero, la sagacia di un diligens inquisitor e la sapienza di un subtilis investigator.
L’accresciuto, e riconosciuto, ruolo del sacerdote accrebbe altresì la consapevolezza dell’importanza della predicazione in ordine alla penitenza, poiché, dirà lapidariamente Umberto di Romans, nulla come la predicazione è in grado di accelerarla. Da ciò pure l’accresciuta responsabilità del sacerdote, chiamato a quest’importante e delicato ministero.
La predicazione — così Innocenzo III nel Prologus dei suoi Sermones — era infatti dotata di una potenza tale da richiamare le anime dall’errore alla verità e dai vizi alle virtù, mutare in rette le cose malvagie, render piane le asperità, istruire la fede, erigere la speranza, rafforzare la carità. Era capace di sradicare le cose nocive, impiantare quelle utili, rafforzare le oneste. Era, in definitiva, una via della vita, una scala di salvezza, una porta del paradiso.
Il predicatore, a sua volta, doveva essere uomo accorto e dotato; doveva avere «vino e olio, verga e manna, fuoco e acqua»: in definitiva, doveva saper redarguire e consolare, correggere e confortare, dispensando ciò di cui si aveva bisogno al momento opportuno. Espressioni che saranno in parte riprese nella Constitutio XXI del Lateranense iv e applicate non più ai predicatori, ma ai confessori, a riprova di quanto fosse condivisa la convinzione, poi esplicitata da Umberto di Romans, che uno stretto legame unisse predicazione e penitenza.
Si richiedeva, come s’è detto, un clero all’altezza della situazione, in grado di somministrare ai penitenti, ai quali il Lateranense iv rendeva obbligatorio il confronto con il proprio sacerdote, il rimedio più efficace. Un clero capace di destreggiarsi in maniera adeguata nel foro penitenziale, perché di vero e proprio foro ormai si trattava, stante le nuove modalità assunte dalla celebrazione del rito sacramentale; un clero dotato di scienza e prudenza, di abilità e tatto, per indurre il penitente a una confessione sincera e piena dei propri peccati.
Vennero così moltiplicandosi gli appelli ai pastori, perché evangelizzassero il popolo scristianizzato, e i moniti a quanti di essi non adempivano al proprio compito. Se Pietro il Cantore giudicò pessima taciturnitas la resistenza dei prelati alla predicazione, cui erano tenuti in forza del loro ministero, Innocenzo III utilizzò a più riprese un passo di Isaia (56, 10) per tuonare contro i cani muti che non volevano abbaiare, appunto i pastori renitenti ad assolvere al loro dovere di annuncio.
Ma non vi era soltanto un popolo da muovere a penitenza. Vi era pure, in quel popolo, una moltitudine di gente, uomini e donne, infiammata di amor di Dio, impegnata a far risuonare in ogni luogo l’invito del Maestro divino: poenitentiam agite. 

Al termine della vita, nel suo Testamentum, Francesco d’Assisi definiva la propria conversione a Dio come l’inizio di una vita di penitenza, concretizzatasi con l’uscita dal secolo; nella grande preghiera e rendimento di grazie posti al termine della Regula non bullata egli esortava tutti coloro che erano desiderosi di «servire al Signore Iddio nella santa Chiesa cattolica e apostolica», «tutte le nazioni e tutti gli uomini d’ogni parte della terra», a perseverare «nella vera fede e nella penitenza, poiché nessuno può salvarsi in altro modo».
I primissimi frati minori qualificavano se stessi come uomini penitenti originari della città di Assisi, e pochi anni più tardi fisseranno in modo chiaro i contenuti della primitiva esortazione che tutti i frati avrebbero potuto rivolgere a ogni genere di persone: essa consisteva nell’invito a lodare e benedire Dio uno e trino e a fare penitenza, a perdonare i torti ricevuti e ad astenersi da ogni male, nella benedizione o maledizione promessa a quanti sarebbero morti nella penitenza o fuori di essa.
Francesco e i suoi frati, dunque, esortarono gli uomini a penitenza, a volgere lo sguardo al Signore e a seguirlo nella quotidianità della vita. Ma non solo loro. Fu — si potrebbe dire — un’esplosione di penitenza, in risposta a una società in trasformazione, che vedeva crescere la ricchezza e sorgere, al tempo stesso, nuove povertà. Predicatori ortodossi ed eterodossi, dotti e meno dotti, facevano da cassa di risonanza all’esortazione di Gesù, come quel Ghirardino Segalelli di cui parla con tono sprezzante Salimbene da Parma: costui, a dire del cronista parmense, nel fatidico anno 1260, «per molti giorni se ne andava solo per Parma» con il «mantello avvolto attorno alle spalle», senza parlare con nessuno, gridando «frequentemente le parole del Signore: “Penitenzàgite” (non sapeva infatti esprimersi correttamente dicendo: “Fate penitenza”, Poenitentiam agite). E nello stesso modo continuarono a dire per molti giorni i suoi seguaci, essendo uomini di campagna e ignoranti».


Una vocazione alla penitenza, un amore che nelle sue espressioni più paradossali si esprimeva in forme che il comune sentire liquidava in termini di pazzia. Già Francesco d’Assisi, con espressione che sembra essere tutta sua (non ascrivibile, cioè, al filtro letterario degli agiografi), definì se stesso un «pazzo novello»; ma altri uomini e donne, soprattutto nell’area mediana d’Italia, presi da ardore di penitenza, ripeterono gesti che una sapienza ispirata a criteri mondani non era in grado di capire nel suo significato più vero, come ad esempio Pietro Crisci, un penitente di Foligno, il quale, «ogni volta che ricordava i suoi peccati spargeva abbondanti lacrime e si diceva che molto spesso prendeva dal fiume alcune pulitissime pietre, le bagnava, le lavava con le sue lacrime e così umide di lacrime, dentro un canestro posto sulla testa con un panno avvolto, le portava attraverso la città e davanti all’immagine della Vergine gloriosa le offriva a lei, Madre, e al suo figlio Gesù». Una sua concittadina, Angela, in un primo tempo si faceva beffe di lui, ma poi, colta anch’essa da struggente amore per il Cristo, e per il Cristo Crocifisso, sembrò non poter fare altrimenti. Fu così che anche lei si sentì ispirata a gesti analoghi, se si vuole ancor più paradossali.
Epoca contraddittoria il Duecento, che fu anche un secolo di forti contrasti tra il clero secolare e i nuovi ordini mendicanti, cui il Papato affiderà ben presto compiti di responsabilità all’interno della compagine ecclesiale. Il Lateranense iv, come s’è già detto e come è ben noto, aveva definito con chiarezza la giurisdizione sacerdotale nel foro sacramentale, tanto da ordinare al penitente di confessarsi al proprio sacerdote (decisione, questa, ispirata anche da chiare motivazioni antiereticali); la normativa, tuttavia, si rivelò di non facile applicazione, per motivi di vario ordine.
Peraltro, già Onorio III, il 4 febbraio 1221, con la lettera Cum qui recipit prophetam, concesse ai frati predicatori di poter ascoltare le confessioni dei penitenti e di istruire i sacerdoti, che avrebbero dovuto fornire al popolo gli strumenti di salvezza. Tuttavia, nelle reiterazioni successive della lettera non si farà più menzione di una tale azione nei riguardi del clero, né si accennerà all’ascolto delle confessioni da parte dei frati, segno evidente che non pochi problemi dovevano essere sorti con i secolari. Nella prima lettera (Quoniam habundavit iniquitas) emessa da Gregorio ix a favore dei predicatori, il 21 aprile 1227, il Pontefice ritornava con decisione sul problema, concedendo ai frati di ascoltare le confessioni e precisando che egli stesso li autorizzava all’esercizio di un tale ministero.
Quel secolo, grande per molti aspetti, illuminato dalle menti più fervide e geniali del medioevo, fu anche un secolo di crisi, almeno per quanto concerne la vita del Collegio cardinalizio. Lo mostrano, con tutta evidenza, alcuni fatti incontrovertibili. Si ebbero, nella seconda metà del Duecento, lunghi periodi di Sede vacante e più di una volta i cardinali chiamarono a sedere sul soglio pontificio uomini esterni al Collegio.
Fu così con Urbano iv (1261-1264) e Gregorio x (1271-1276) e sarà ancora così con Celestino v (1294), eletto dopo una vacanza di ventisette mesi. Quest’ultima elezione suscitò un’attesa enorme nelle folle. L’eremita abruzzese recepì l’attesa del popolo cristiano e la sua ansia di salvezza: prova ne è la decisione di concedere una perdonanza generale, sancita con la lettera Inter sanctorum solemnia. La decisione di Celestino v verrà cassata dal suo successore, Bonifacio VIII. Ciò non toglie che la decisione celestiniana abbia finito in qualche modo per influire anche su Papa Caetani, che il 22 febbraio 1300 promulgherà il primo Giubileo della storia cristiana.

L’Osservatore Romano 17 novembre 2012, p. 4

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