Il
perché di un innegabile protagonismo in ambito mariano
Da
Paolo VI a Benedetto XVI
di Angelo Amato
Inaugurando
la corretta impostazione teologico-dogmatica del discorso su Maria, il concilio
di Efeso indicò l’alveo idoneo per l’approfondimento dottrinale del mistero
della beata Vergine, per una sua valida celebrazione liturgica e devozionale e
per una sua adeguata rappresentazione iconografica. Come Efeso, anche il
Vaticano II si pone, dopo più di quindici secoli, come spartiacque epocale del
discorso mariano, disciplinandone il rigoglioso sviluppo avuto nel corso dei secoli
e ridando alla riflessione e alla pietà mariana la loro essenziale struttura
cristologico-trinitaria nell’ormai celebre capitolo ottavo della costituzione
dogmatica sulla Chiesa, intitolato De beata Maria Virgine Deipara in mysterio
Christi et Ecclesiae. Riprendendo il dogma efesino della maternità divina di
Maria — «Virgo enim Maria, quae Angelo nuntiante Verbum Dei corde et corpore
suscepit et Vitam mundo protulit, ut vera Mater Dei ac Redemptoris agnoscitur
et honoratur» — il Concilio aggiunge: «Intuitu meritorum Filii sui sublimiore
modo redempta Eique arcto et indissolubili vinculo unita, hoc summo munere ac
dignitate ditatur ut sit Genitrix Dei Filii, ideoque praedilecta filia Patris
necnon sacrarium Spiritus Sancti, quo eximiae gratiae dono omnibus aliis
creaturis, coelestibus et terrestribus, longe antecellit» (Lumen gentium, 53).
È
straordinaria l’essenzialità del dettato conciliare in questa descrizione
trinitaria della beata Vergine, chiamata genitrice del Figlio di Dio, figlia
prediletta del Padre e sacrario dello Spirito Santo. Questa sua eccellenza di
grazia fa sì che Maria «preceda di gran lunga tutte le altre creature, celesti
e terrestri». Ma il concilio precisa anche che Maria è una creatura «redenta in
modo più sublime in vista dei meriti del suo Figlio». È la stessa affermazione
fatta dal concilio nel suo primo documento ufficiale, esattamente nella
costituzione sulla sacra liturgia, in cui si asserisce che la Chiesa ammira in
Maria «il frutto più eccelso della redenzione». Sono affermazioni decisive per
allontanare dal discorso mariano ogni indebita esasperazione dottrinale e
devozionale, che la ponga in parallelo al suo Figlio divino.
Dopo
circa cinquant’anni possiamo oggi valutare con serena oggettività la portata
epocale del capitolo ottavo della Lumen gentium, che, come il seme sparso sul
terreno buono, ha dato sviluppo alla ricerca mariana trasformandola in pianta
feconda di fiori e di frutti. In nessun modo intendo anticipare le
considerazioni degli studiosi, che si alterneranno in questi giorni, per
studiare la ricezione, il bilancio e le prospettive mariologiche a partire dal
Vaticano II. Intendo solo proporre alcune considerazioni generali, sulla
innegabile primavera mariana postconciliare, individuando protagonisti e
apporti decisivi.
Credo
che si possano individuare tre cause, fra le altre, che hanno contribuito in
modo rilevante al rilancio di una mariologia scientifica di alta qualità
teologica, che ha saputo riplasmare non solo il discorso dottrinale su Maria,
ma anche la pietà del popolo cristiano e la sua spiritualità. Mi riferisco al
protagonismo del magistero pontificio, ad alcuni dinamici laboratori di studi
mariani e, infine, a una salutare impostazione metodologica, elaborata
dall’ermeneutica della continuità aperta allo sviluppo.
Anzitutto,
il discorso innovativo del Vaticano II, concentrato soprattutto nel capo ottavo
della Lumen gentium, ebbe l’appoggio incondizionato del magistero papale, che
si rese protagonista di una vera e propria rinascita mariologica. Iniziò Paolo
VI, che, superando il paradossale silenzio scientifico dell’immediato
post-concilio, tenne viva l’attenzione sul mistero di Maria, pubblicando due
encicliche mariane — Mense maio (1965) e Christi Matri (1966) — e tre
esortazioni apostoliche, Recurrens Mensis (1969), Signum magnum (1967) e Marialis
cultus (1974). Nessuno può negare l’importanza contenutistica e metodologica, a
esempio, della Marialis cultus, che evidenzia nella pietà mariana alcune
caratteristiche — dimensione trinitaria, cristologica ed ecclesiologica —
emergenti dall’approccio biblico, liturgico, ecumenico e antropologico. Si
tratta di indicazioni che hanno arricchito la tavolozza ermeneutica, anche al
di là della specifica riflessione mariologica. Di eccezionale ricchezza è
stato, poi, il contributo del magistero mariano di Giovanni Paolo II, con
l’enciclica Redemptoris Mater (1987), con l’esortazione apostolica Mulieris
dignitatem (1988), con la lettera apostolica Tertio millennio adveniente
(1994), con il suo ciclo di catechesi mariana (6 settembre 1995 - 12 novembre
1997), con i suoi innumerevoli discorsi e omelie mariane, con la lettera
apostolica Rosarium Virginis Mariae (2002) e con il capo sesto dell’enciclica Ecclesia
de Eucharistia (2003). Nei ventisette anni di pontificato, Papa Wojtyła ha
rivisitato tutto intero il mistero di Maria, non solo dal punto di vista
dottrinale, ma anche da quello pastorale, catechetico, ecumenico e spirituale.
È poi tutto ancora da studiare il contributo mariologico del Santo Padre
Benedetto XVI, prima e durante il suo pontificato.
A
questo punto ci chiediamo sul perché di questo innegabile protagonismo
pontificio in campo mariano: si tratta forse di espressione esagerata di
devozione mariana o non piuttosto di un dato teologico che appartiene
all’essenza del ministero petrino? A questo riguardo, Leo Scheffczyk affermava
che, nell’universo della fede cattolica, «“Pietro” e “Maria”, nonostante siano
caratterizzati da una personalità e storicità singolari, possono essere
considerati “princípi” della realtà della fede cattolica. Non lo sono tanto
nella loro autonomia, ma proprio nel loro rapporto e nel loro orientamento
reciproco». Il ministero petrino, visto nella struttura ministeriale della
Chiesa, oltre che esprimere una funzione ecclesiale, è parte integrante
dell’identità del cattolicesimo, della sua qualità teologica e cristologica.
Dal momento che ogni ministero apostolico ha un ruolo di mediazione tra
l’umanità e Cristo, mediatore universale, anche il ministero petrino è radicato
nella legge della mediazione che emana da Cristo, e che viene concretizzata
nella Chiesa. Al ministero petrino spetta, però, una posizione di preminenza,
dal momento che «esprime ancora una volta in una sola persona quello che gli
apostoli erano insieme». Si tratta di un ministero necessario per l’unità della
Chiesa.
Il
principio petrino, inoltre, evidenzia il fatto che l’uomo con le proprie forze
non può raggiungere la salvezza, che proviene solo da Dio in Gesù Cristo. Di
fronte a tale ministero ci vuole una ricettività da parte dell’uomo e più
precisamente da parte della Chiesa fatta di uomini battezzati. Da una parte si
ha l’offerta della grazia mediante il ministero, dall’altra la recezione di
questa grazia vista nella potenzialità che la Chiesa ha di riceverla. In ciò
risiede la ragione teologica per affermare la realtà di Maria e il «principio
mariano» nella Chiesa. Se la mariologia è un punto d’incontro di tutte le linee
del dogma cattolico, Maria costituisce «il principio della Chiesa come ancella
del Signore che serve, come mediatrice della salvezza, ma nell’ordine dei
membri, cioè non come capo». Maria è l’immagine della Chiesa, non come realtà
sociologica, ma come «grembo in cui viene portata e sempre di nuovo nasce la
vita mistica di grazia di Gesù, il vaso vivente che, ricevendo, trasmette la
salvezza di Cristo».
Il
rapporto tra principio petrino e principio mariano può essere caratterizzato
come paternità della generazione della salvezza e come maternità della
ricezione della salvezza. Queste denominazioni corrispondono ed esprimono una
realtà, dal momento che, a esempio, il ministero viene caratterizzato nel Nuovo
Testamento con le parole con le quali Paolo si definisce padre nei confronti
della sua comunità: «Vi ho generati in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (1
Corinzi, 4, 15). D’altra parte anche la Chiesa, che accoglie la salvezza e
opera mediante la forza generatrice di Cristo, viene designata con i titoli di
madre, donna, sposa o vergine. Nel ministero apostolico si può vedere la continuazione
della mediazione di Cristo, come capo nell’evento salvifico e come principio
della disposizione autorevole della salvezza, mentre in Maria si può vedere il
principio della disponibilità della Chiesa a ricevere e a distribuire la
salvezza: «Maria è il principio della prontezza umana illimitata per la
salvezza, il principio che abbraccia la salvezza, il principio cooperatore e
dotato di compassione». Nella realtà della Chiesa, i due principi non solo non
sono contrapposti ma si compenetrano reciprocamente, per cui la Chiesa intera è
contemporaneamente petrina e mariana. Si tratta di una specie di pericoresi, di
interrelazione reciproca. Di conseguenza l’autorità nella Chiesa non può fare a
meno di essere vivificata dall’atteggiamento mariano del fiat, del servizio
fatto con umiltà, dedizione, generosità, fedeltà e comunione stretta con
Cristo. D’altra parte, questa compenetrazione fa sì che il ministero petrino
non possa essere percepito dalla Chiesa come una realtà estranea e autoritaria,
ma solo come struttura necessaria per la trasmissione della vita di grazia
nella concretezza della storia. Il profondo interesse, quindi, del magistero
pontificio per la questione mariana non è solo un aspetto estrinseco e
marginale dell’insegnamento papale, ma ne costituisce una dimensione
intrinseca, che del resto viene ampiamente fondata e manifestata nella
preghiera liturgica della Chiesa.
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