Il catechismo
in ebraico
Tre
volumi per le famiglie in Terra Santa
di Marco
Bonatti
Come si
scrive «Trinità» in ebraico? E «Immacolata Concezione»? E «incarnazione»? Il
problema non è, naturalmente, la semplice traduzione delle parole ma il
contesto in cui le verità cristiane vanno presentate. La cultura e la teologia
ebraica non conoscono questi concetti, e dunque il linguaggio non permette di
accedervi. Anche per questo sono stati pubblicati, nei giorni di Natale, i
primi tre volumi del catechismo in lingua ebraica, destinati ai bambini e alle
famiglie che, in terra di Israele, vogliono cominciare o continuare il proprio
percorso nella fede cristiana. Un impegno rivolto non tanto agli ebrei (sono
poche le conversioni) quanto ai cristiani che lavorano in Israele. Si tratta di
lavoratori che provengono dalle Filippine, dall’Africa, dall’America Latina
che, con le loro famiglie, vivono nello Stato di Israele per qualche mese o per
parecchi anni. Si calcola che siano ormai 230.000. E vorrebbero non sciogliere
i legami con la propria fede, per sé e per i propri figli. Poi ci sono i
cittadini israeliani di etnia araba e religione cristiana. E anche alcune
comunità di «giudeo-cristiani»: persone di fede ebraica che intendono
continuare il cammino dell’«ebreo» Gesù di Nazareth credendo nella sua
rivelazione.
Padre David Neuhaus, gesuita, è vicario patriarcale di Gerusalemme dei Latini con l’incarico di seguire la pastorale di tutti questi «israeliani speciali». Prima di lui il compito era toccato a padre Pierbattista Pizzaballa, il francescano custode di Terra Santa. Assieme al custode di Terra Santa, padre Neuhaus aveva iniziato questo lavoro particolare e straordinario di traduzione, silenzioso e discreto. Nel cuore della Gerusalemme nuova — e dunque nel pieno della «civiltà» ebraica — c’è la piccola chiesa dove il Patriarcato accoglie le attività della pastorale di lingua ebraica. Con padre Neuhaus lavorano stabilmente trentacinque famiglie, che si sono prese l’incarico di animare la catechesi e di gestire i servizi rivolti a migliaia di bambini e alle loro famiglie. Circa cinquecento persone partecipano stabilmente alle liturgie e alle attività pastorali del vicariato ebreofono. «Sono principalmente israeliani di provenienza mista — spiega padre Neuhaus — parenti di ebrei, bambini di ebrei, alcuni ebrei convertiti e altre persone che non sono ebree ma sono integrate nella società ebraica». Questo, specifica, «è il primo gruppo molto ristretto, ma poi ci sono gruppi più vasti: gli operai stranieri che parlano ebraico ma non frequentano le nostre liturgie in ebraico. Il problema con loro è quando hanno bambini che frequentano le scuole ebraiche. Noi entriamo per cominciare un’attività per bambini che sono totalmente formati nelle scuole ebraiche laiche».
L’impegno è
rivolto anche agli arabi cittadini israeliani, discendenti di quei palestinesi
che non fuggirono nel 1948. Alcune famiglie hanno lasciato la Galilea per
trasferirsi al sud, soprattutto a Beer Sheva, e lavorano con i beduini come professori
o medici ma non mandano i loro bambini alle scuole di lingua araba a causa del
livello basso delle scuole. «Quindi, i nostri libri di catechesi, la nostra
rivista, il nostro sito internet (www.catholic.co.il), la nostra liturgia — osserva
il gesuita — servono a questa popolazione. Anche quando il rito non è il loro,
perché molti per esempio sono di rito bizantino o maronita». E evidenzia: «Noi
non proviamo ad attirare questi bambini a venire nella Chiesa di rito latino.
Insistiamo invece sulla formazione cristiana. Cristiana in ambiente ebraico e
laico. Queste persone non si integrano dal punto di vista religioso, ma dal
punto di vista culturale, linguistico».
Il vicario descrive una realtà che appare complessa.
I lavoratori stranieri che arrivano in Israele devono mandare i propri figli
alla scuola pubblica, dove si insegna e si parla l’ebraico, in quanto le scuole
private sono inaccessibili, per via dei costi. Così ci sono bambini arabi,
cittadini israeliani e figli di cittadini israeliani, che crescono imparando
l’ebraico senza parlare la propria lingua “nativa”. «Ci sono anche africani —
aggiunge — che vengono qui chiedendo asilo politico, tuttavia quello che a noi
interessa sono i bambini che sono integrati nella scuola e dopo alcuni anni
parlano essenzialmente l’ebraico, ma possono scrivere e leggere anche altre
lingue. Abbiamo una grande quantità di bambini libanesi, palestinesi, arabi che
vivono nelle città ebraiche. I nostri libri di catechismo — puntualizza — non
servono solo per i “nostri” bambini, ma sono per tutti i bambini che
frequentano la scuola ebraica». In questa realtà ci sono infine anche cittadini
israeliani che si dichiarano atei, non professano nessun culto ma sono ebrei
per cultura, storia e anche nazionalità. Il lavoro di formazione (e in questo i
catechismi sono fondamentali) riguarda non soltanto i percorsi di iniziazione
cristiana dei bambini ma anche quelli rivolti alle persone adulte. «La nostra
sfida — conclude il vicario — non è solo dare la formazione ai bambini più
piccoli ma di lavorare anche con quelli di età dai quindici ai venticinque
anni, per dare un senso di Chiesa e di essere cristiano, un senso di gioia».
(©L'Osservatore Romano 19 gennaio 2012)
(©L'Osservatore Romano 19 gennaio 2012)
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