Frati precursori
Un progetto francescano di evangelizzazione
anticipava alcune linee
del concilio già negli anni Quaranta del Novecento
Dal patrimonio archivistico del Centro pastorale per
le missioni interne emergono testimonianze di innovativi metodi di analisi
di Giuseppe Buffon
Fr. Giuseppe Buffon |
La festa di san Francesco d’Assisi assume quest’anno
un significato particolare per il fatto di precedere di appena otto giorni
l’inaugurazione dell’anno della fede, che segna l’inizio delle celebrazioni per
il cinquantesimo anniversario d’indizione del concilio Vaticano II. A tutti è
ormai noto il contributo offerto dal santo di Assisi al progresso della fede
con la fondazione dell’ordine francescano. Una iniziativa assolutamente
inedita, anche in ambito scientifico, è invece la proposta di una “nuova evangelizzazione”,
maturata in seno al medesimo ordine francescano nel decennio precedente al
grande evento conciliare. Di vero inedito, infatti, si deve parlare allorché si
fa riferimento alla vicenda del Centro pastorale per le missioni interne
(Cpmi), il cui patrimonio archivistico — in buona parte sprovvisto di
catalogazione — giace fino a ora inesplorato. Si è dimostrata sufficiente una
rapida consultazione del materiale documentario prodotto dai suoi organismi per
cogliere i tratti di un’autentica anticipazione del programma riformistico
lanciato dal Vaticano II, nonché per scoprire una modalità di applicazione
dell’orientamento conciliare, vale a dire quella sua connotazione pastorale,
orientata al dialogo con il “mondo”, inteso nella sua dimensione secolare,
economica, politica e civile.
L’intuizione del Cpmi affonda le sue radici in un
preciso sostrato culturale, tipico di una stagione di ricerche storico sociali,
svolte intorno al confronto tra religione e “modernità”. Ci riferiamo qui alla
fine degli anni Quaranta, periodo durante il quale lo storico Gabriel Le Bras e
il canonico Fernand Boulard, fondandosi sui dati relativi alla pratica
religiosa, individuano i tratti di una geografia francese di
scristianizzazione. Nelle “carte della Francia religiosa” da essi realizzate
figurano suddivisioni denominate: zone a, con praticanti in alta percentuale;
zone b, con percentuale medio bassa di frequenza e con i rimanenti di mentalità
cristiana ancora persistente; e infine zone c, caratterizzate da esiguo numero
di praticanti all’interno di un ambiente che si distingue per una concezione di
vita ormai completamente avulsa dai valori cristiani.
In questo stesso periodo, il francescano padre Jean
François Motte, estimatore del Boulard e a lui legato da fruttuosa
collaborazione, matura la convinzione che, per evangelizzare la popolazione dei
territori corrispondenti alle zone b e più ancora quella residente nelle zone c,
poco o nulla sarebbe servita la missione proposta secondo il metodo
tradizionale. Le missioni parrocchiali, così come erano state praticate in
seguito al concilio al Trento, forse avrebbero potuto ottenere qualche
risultato nelle zone a, dove era sufficiente un intervento rivolto al piano
morale, dato che l’elevata pratica cristiana consentiva di tralasciare
problematiche riguardanti la fede (incroyance). Sempre secondo padre Motte, le
missioni parrocchiali, puntando su parate, ritualità, predicazioni d’effetto,
avrebbero potuto incidere emotivamente sulla popolazione delle zone b; tale
forma di approccio alquanto superficiale non avrebbe potuto però ottenere
risultati duraturi sul piano dei comportamenti, dei valori, degli stili di
vita. Ancora, il metodo missionario tradizionale, che presupponeva la fede, non
avrebbe avuto invece impatto alcuno sulle popolazioni delle zone c, per le
quali non era solo in gioco la morale, ovvero i comportamenti, bensì lo stesso
credo nell’esistenza di un Dio personale e la fiducia nella mediazione della
Chiesa istituzionale.
Sul piano concreto, operativo, Motte si dimostra
convinto della necessità di realizzare un piano di evangelizzazione almeno su
scala diocesana, e inoltre che esso venga progettato tenendo conto di una
suddivisione del “territorio”, quale esito di un accurato studio socio
religioso degli ambienti umani. In estrema sintesi, direbbe Motte, per
modificare i comportamenti in zone b o c, si imporrebbe un intervento di ordine
generale, appunto una missione generale — così l’operazione è definita dal
Motte — e non più una missione delimitata dal perimetro parrocchiale. Per farsi
intendere Motte usa ricorrere alla metafora seguente: non è più possibile
“pescare con la canna”, ovvero rivolgere l’attenzione verso singole persone o
ad ambienti ristretti, limitati territorialmente; quanto oggi urge, dichiara il
francescano, è una tecnica pesca che preveda “il cambiamento dell’acqua”, cioè
che esiga un intervento sul complesso dei fattori, i quali pervadono l’intera
sfera socio-culturale. Fuor di metafora, sarebbe quindi necessario operare
secondo un metodo, che Motte definisce “pastorale d’ensemble”. Sulla base di
tale criterio, l’evangelizzazione dovrebbe prevedere cioè una sincronica e
coordinata serie di interventi, tale che ciascuno sia indirizzato verso una determinato
settore dell’ambiente sociale, dato che l’agire umano è condotto non solo dalla
volontà propria, ma viene influenzato, appunto, anche dall’ambiente.
Al fine di raggiungere il suddetto obiettivo,
previsto dalla pastorale d’ensemble, la parola d’ordine non può che essere
espressa nel termine di collaborazione. Il Cpmi — fondato a Parigi nel 1951 su
iniziativa del Motte stesso — sorgeva in realtà con la summenzionata finalità.
La prima opera di collaborazione spetta allora ai vari istituti religiosi, che
tradizionalmente svolgono attività in ambito missionario a servizio delle
parrocchie. In realtà, gesuiti, domenicani, redentoristi, oltre a cappuccini e
francescani, all’epoca già avevano avuto modo con la loro esperienza di
dimostrare l’efficacia della cosiddetta collaborazione missionaria, avendo essi
partecipato ad alcune missioni generali organizzate da Motte alla fine degli
anni Quaranta del Novecento. L’entusiasmo suscitato da quelle felici esperienze
li aveva corroborati infondendo loro stimolo e audacia per progettare un
accordo di lunga durata, concretizzatosi appunto con la creazione
dell’organismo denominato Cpmi.
La collaborazione raggiunta dagli istituti religiosi
missionari, per Motte, però non sarebbe misura sufficiente per realizzare quel
determinato scopo già prefissato dal Cpmi, tramite la missione generale, vale a
dire la pastorale d’ensemble. Per raggiungere un tale obiettivo era quindi
necessario ottenere anche la collaborazione da parte dell’episcopato, quale
agente primo di una Chiesa da intendersi “comunità missionaria”.
Un’efficace pastorale d’ensemble, precisa ancora
Motte, esigerebbe non solo l’accordo tra gli istituti religiosi missionari e la
sintonia tra i religiosi e i vescovi, ma richiederebbe anche la collaborazione
attiva e responsabile da parte dei laici.
Dall’arcivescovo di Cambray, monsignor Guerry,
inoltre, Motte attinge la sensibilità per il valore ecclesiale del laicato.
Figura di spicco dell’episcopato francese, soprattutto per aver incoraggiato
l’opera di evangelizzazione tramite il ricorso al laicato d’azione cattolica,
Guerry fu uno dei primi a intuire la necessità della penetrazione del ceto
operaio, quale ambiente altamente scristianizzato e per questo lontano dalla
compagine ecclesiale. Per Guerry, come in parte anche per Motte, l’incroyance
trova fecondità specialmente nelle caratteristiche socio culturali e politiche
dell’ambiente operaio. Il laicato, per entrambi, costituirebbe allora l’unico
agente in grado di introdurre una testimonianza cristiana credibile in
ambienti, com’è quello operaio, ormai lontani per mentalità e stili di vita
dalla proposta cristiana. La collaborazione offerta dai laici, espressa tramite
il “mandato” missionario, diventa perciò imprescindibile per il successo della
nuova proposta di evangelizzazione. Il cerchio della collaborazione per una
efficace pastorale d’ensemble non si può però considerare concluso senza
comprendere la partecipazione del clero e della stessa comunità cristiana
parrocchiali. Per imprimere efficacia a una missione, che sia attenta non tanto
al territorio ma agli ambienti — operaio, scolastico, infanzia, borghese,
industriale e così via — è necessario uscire dai ristretti confini della
parrocchia, anzi è d’obbligo rivedere lo stesso concetto di territorializzazione
e distribuzione delle presenze religiose, così da aprirsi alla collaborazione e
disporsi alla formazione di equipe di parroci.
Nemmeno la comunità parrocchiale, costituita dai
cosiddetti praticanti, alla luce del progetto missionario del Cpmi, può considerarsi
esclusa dalla collaborazione all’iniziativa missionaria. In realtà, la comunità
parrocchiale, in primis, dovrebbe sottoporsi a una verifica di autenticità, in
vista di assumere essa stessa l’incarico missionario, quale testimone di una
fede credibile. La comunità cristiana, secondo Motte, dovrebbe maturare il
disegno della propria conversione con la verifica delle cause responsabili
dell’abbandono della fede, dei motivi della moderna avversione alla Chiesa,
custode e testimone del proprio credo.
La missione generale, secondo Motte, non deve dunque
orientarsi ai soli lontani, bensì anche ai cosiddetti vicini, cioè alla
comunità parrocchiale. Allo scopo di rianimare la comunità parrocchiale, di
rivitalizzare i suoi differenti settori, il Cpmi giunge progressivamente a
concepire la programmazione di un periodo preparatorio, della durata di due o
tre anni, cosiddetto della pre-missione, periodo durante il quale tutta la
comunità cristiana viene coinvolta nell’indagine socio-religiosa dei ceti sociali
presenti sul territorio.
La storia del Cpmi costituisce un inedito assoluto,
dato che, come si è detto, non è stata ancora condotta una ricerca sistematica
sui documenti che formano il suo archivio. In realtà, allo stato della ricerca,
potremmo affermare l’assenza di un archivio inteso in senso stretto. La
documentazione relativa all’attività svolta dai vari componenti del Centro
pastorale, si può reperire infatti soltanto facendo riferimento ad archivi
privati e a quelli di enti religiosi o ecclesiastici, già collaboratori del
medesimo organismo.
Il Cpmi cessa di esistere alla fine del 1970, per
ragioni complesse. In un futuro auspicabile studio sarebbe opportuno e
fruttuoso prestare speciale attenzione ai nessi tra le ragioni della sua
estinzione e i processi di ricezione degli orientamenti del concilio Vaticano
II, tanto a livello di strutture ecclesiali — episcopato, ordini religiosi
missionari — quanto sul piano delle comunità parrocchiali, clero e movimenti
laicali. È nostra convinzione, infatti, che l’approfondimento della vicenda del
Cpmi, in particolare quella relativa alla fase finale, che ne ha visto
l’estinzione, potrebbe contribuire al dibattito sul modo in cui del Vaticano II
sono stati recepiti sia lo spirito, sia il contenuto.
Tale confronto, come è noto, è tutt’ora animato da
interrogativi intorno a continuità, discontinuità, ovvero intorno a
progressismo o a conservatorismo, blocchi o proiezioni eccessivamente
futuristiche. In una parola, l’analisi della genesi e soprattutto dell’epilogo del
Cpmi, a nostro avviso, contribuirebbe a illuminare le annose questioni sorte
intono all’ermeneutica non solo del testo, ma anche dell’evento conciliare. Dai
sondaggi finora effettuati, almeno un’ipotesi generale sembra profilarsi quale
orizzonte di un auspicabile approfondimento. L’ipotesi proponibile potrebbe
esprimersi nella maniera seguente: e se le ragioni della estinzione del Cpmi
coincidessero con i ritardi o con il fallimento di una piena applicazione della
riforma conciliare, ossia con la sconfitta verificatasi in alcuni aspetti,
quali la collaborazione tra i differenti agenti pastorali; la responsabilità
del laicato in ambito ecclesiale, missionario; l’equilibro, l’armonizzazione
tra applicazione delle scienze umane e interpretazione teologico spirituale?
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